Da Trani a Seraing, due anni in una miniera: la storia di Mario Scamarcio
Il racconto del difficile lavoro del passato oggi dimenticato
mercoledì 29 agosto 2018
18.36
Seraing, Belgio. Forse un luogo che in pochi hanno sentito nominare ma che è la cornice nera di questa storia. 1970. Il nome tradisce un'origine andriese ma per gran parte della sua vita ha vissuto, e vive tutt'oggi, a Trani. Mario Scamarcio per due anni ha lavorato in Belgio nelle viscere della Terra, nel buio profondo di Many, una miniera di Seraing. Fino a qualche anno fa, quando si voleva minacciare un ragazzino dal brutto rapporto con i libri di scuola, partiva il grido: "In miniera!". Ma cosa significava davvero quella gelida minaccia?
«Andare a lavorare in miniera nel 1970 - racconta Mario, rara testimonianza di una realtà sconosciuta ai più - significava infilarsi in un buco ogni mattina e rimanerci otto ore. Significava martellare sulle pietre con picconi o martelli pneumatici fino ad assordarsi. Respirare le polveri sottili dei minerali frantumati. Abbandonare la luce del Sole e non sapere se, otto lunghe ore dopo, avresti avuto la fortuna di rivederla ancora».
Nel secondo dopoguerra il Belgio aveva sottoscritto con l'Italia un protocollo di intesa per la partenza di 50mila lavoratori, con età non superiore a 35 anni. Partivano a gruppi di 2mila a settimana in cambio della fornitura annuale all'Italia di un quantitativo di carbone compreso tra i due e i tre milioni di tonnellate. Mario, però, non è stato obbligato a lavorare in miniera. La sua è stata una scelta, complice il guadagno più che dignitoso per il sogno di mantenere una famiglia. A Seraing è arrivato per amore. È di origine belga la donna che anni dopo è diventata sua moglie. Dopo aver lavorato in una succursale Fiat in Belgio, ha deciso di tentare la fortuna in miniera, seguendo le redini di suo suocero.
Una gabbia, all'inizio del turno, trasportava Mario e i suoi colleghi, una ventina di persone alla volta, a 900 metri di profondità. «I primi giorni sono stati i più difficili. Le lacrime bagnavano il volto senza che potessi controllarle. Era come se una forza tremenda ci trasportasse in fondo ad un interminabile pozzo. Si viaggiava prima su un convoglio di carrelli e poi si camminava a piedi, per gallerie più basse e strette. Intanto, lentamente, la luce si affievoliva. Nei cunicoli frantumavamo la roccia nera di fronte a noi. Senza sosta, con pochi minuti da dedicare al pranzo. Le fuoriuscite di gas, poi, erano sempre in agguato. Nelle miniere gli incendi sono immediati e micidiali, non lasciano scampo. Lavoravamo con tre lampade (in foto). Una di questa si spegneva in presenza del gas. In questi casi dovevamo lasciare tutto e scappare più in fretta che potevamo. Ogni giorno era un rischio».
I minatori trovavano sollievo dalle fatiche quotidiane soltanto quando smettevano di respirare l'umidità e tornavano in superficie. Così neri che del corpo non si vedeva nient'altro che gli occhi e i denti. La sera Mario condivideva una birra con i colleghi cercando di non pensare all'incubo del giorno dopo.
La miniera Many si trovava a 50km da Marcinelle, dove anni prima, nel 1956, morirono 262 minatori per le ustioni, il fumo e i gas tossici. 136 erano italiani. «Quando Many è stata chiusa ha perso la vita un operaio», ha raccontato Mario in un velo di tristezza.
Per Mario Scamarcio, per due anni, la miniera è stata la sua vita, la sua fonte di reddito, la sua sfida, il suo terrore. Di lavori in Belgio e a Trani, dopo, ne ha fatti tanti. Ma questo è il puzzle della sua vita che lo ha segnato di più e che oggi ha deciso di raccontare ai lettori di TraniViva, come testimonianza di un passato che in pochi hanno vissuto e conoscono.
«Andare a lavorare in miniera nel 1970 - racconta Mario, rara testimonianza di una realtà sconosciuta ai più - significava infilarsi in un buco ogni mattina e rimanerci otto ore. Significava martellare sulle pietre con picconi o martelli pneumatici fino ad assordarsi. Respirare le polveri sottili dei minerali frantumati. Abbandonare la luce del Sole e non sapere se, otto lunghe ore dopo, avresti avuto la fortuna di rivederla ancora».
Nel secondo dopoguerra il Belgio aveva sottoscritto con l'Italia un protocollo di intesa per la partenza di 50mila lavoratori, con età non superiore a 35 anni. Partivano a gruppi di 2mila a settimana in cambio della fornitura annuale all'Italia di un quantitativo di carbone compreso tra i due e i tre milioni di tonnellate. Mario, però, non è stato obbligato a lavorare in miniera. La sua è stata una scelta, complice il guadagno più che dignitoso per il sogno di mantenere una famiglia. A Seraing è arrivato per amore. È di origine belga la donna che anni dopo è diventata sua moglie. Dopo aver lavorato in una succursale Fiat in Belgio, ha deciso di tentare la fortuna in miniera, seguendo le redini di suo suocero.
Una gabbia, all'inizio del turno, trasportava Mario e i suoi colleghi, una ventina di persone alla volta, a 900 metri di profondità. «I primi giorni sono stati i più difficili. Le lacrime bagnavano il volto senza che potessi controllarle. Era come se una forza tremenda ci trasportasse in fondo ad un interminabile pozzo. Si viaggiava prima su un convoglio di carrelli e poi si camminava a piedi, per gallerie più basse e strette. Intanto, lentamente, la luce si affievoliva. Nei cunicoli frantumavamo la roccia nera di fronte a noi. Senza sosta, con pochi minuti da dedicare al pranzo. Le fuoriuscite di gas, poi, erano sempre in agguato. Nelle miniere gli incendi sono immediati e micidiali, non lasciano scampo. Lavoravamo con tre lampade (in foto). Una di questa si spegneva in presenza del gas. In questi casi dovevamo lasciare tutto e scappare più in fretta che potevamo. Ogni giorno era un rischio».
I minatori trovavano sollievo dalle fatiche quotidiane soltanto quando smettevano di respirare l'umidità e tornavano in superficie. Così neri che del corpo non si vedeva nient'altro che gli occhi e i denti. La sera Mario condivideva una birra con i colleghi cercando di non pensare all'incubo del giorno dopo.
La miniera Many si trovava a 50km da Marcinelle, dove anni prima, nel 1956, morirono 262 minatori per le ustioni, il fumo e i gas tossici. 136 erano italiani. «Quando Many è stata chiusa ha perso la vita un operaio», ha raccontato Mario in un velo di tristezza.
Per Mario Scamarcio, per due anni, la miniera è stata la sua vita, la sua fonte di reddito, la sua sfida, il suo terrore. Di lavori in Belgio e a Trani, dopo, ne ha fatti tanti. Ma questo è il puzzle della sua vita che lo ha segnato di più e che oggi ha deciso di raccontare ai lettori di TraniViva, come testimonianza di un passato che in pochi hanno vissuto e conoscono.