De Feudis & friends: «Ciao ciao Di Pietro»
Idv: in attesa dell’assemblea, tanti ex militanti formalizzano l'addio. I firmatari ricostruiscono le tappe della rottura insanabile
giovedì 29 novembre 2012
12.35
Dodici esponenti di spicco dell'Italia dei Valori (fra cui Sebastiano De Feudis) ratificano con un documento, la fuoriuscita dal partito di Antonio Di Pietro. Il documento di addio e critica alla gestione del partito è firmato, oltre che da De Feudis (già segretario regionale Idv), da Lucio Lugli (già vice segretario regionale), da Rachele Occhionero (già responsabile regionale del dipartimento cultura), Nando Pedaci (già sindaco di Vernole), Giusi Uccellini (già presidente del dipartimento pari opportunità regionale), Nicola Triglione (già presidente del Collegio regionale di garanzia), Alessandro Capone (già segretario del movimento giovani provinciale), Cecilia Di Lernia (già assessore al Comune di Trani per l'Italia dei Valori) e da Gianni Aprile, Stefano Spagnolo, Biagio Elefante e Vito Sabato (tutti ex componenti del coordinamento regionale). L'annuncio non è casuale perché cade a poco più di 2 settimane dall'assemblea nazionale del partito.
I firmatari ricostruiscono le tappe della rottura insanabile. «E' sotto gli occhi di tutti – scrivono - la profonda crisi che l'Idv attraversa. Una crisi che, banalmente, si vorrebbe imputare ad una campagna mediatica ostile. Il 2,9% riportato in Sicilia è però precedente a Report ed il non voler riconoscere le vere radici della crisi rappresenta l'ennesimo atto di cecità politica o il disperato tentativo di tenere insieme qualcosa. E' singolare la supplica con cui si scongiurano i militanti affinchè partecipino all'assemblea nazionale del 15 dicembre, una inusitata mitezza molto lontana dal pugno di ferro usato il 28 giugno del 2011 quando, immotivatamente, fu commissariata la struttura regionale consegnando la Puglia ad uno dei suoi più fedeli colonnelli di Di Pietro. E' opportuno sottolineare che quella struttura regionale era stata eletta da un congresso vero con la partecipazione di 800 delegati. In quante altre Regioni si era svolto un congresso non paternalisticamente pilotato dall'alto? Noi siamo quelli del 28 giugno, data in cui si concluse il nostro percorso nell'Italia dei Valori».
La vecchia base rivendica la bontà di quell'esperienza, il tentativo di dare all'Italia dei Valori di Puglia una tracciabilità politica autonoma, coerente con la vocazione del partito come attestava quel documento in 10 punti, approvato all'unanimità dal coordinamento, inviato all'ufficio di presidenza. «Piacque, evidentemente, poco alla direzione del partito – scrivono i 12 ex militanti – e piacque ancora meno la manifestata capacità di autonomia, e non piacque per niente la sensazione di poter perdere il controllo sul partito regionale. Con quella dirigenza, immotivatamente cancellata, i bilanci del partito erano finalmente a conoscenza e disposizione di tutti, le spese da affrontare condivise dall'intero coordinamento. Quella dirigenza alle feste regionali dell'Italia dei Valori pugliese prive di qualsiasi contenuto politico (alla festa regionale del 2011 a Bari c'erano circa 80 persone, a quella del 2012 a Taranto c'erano 25 persone) preferiva convegni seri e partecipati da numerosissima gente. Alle inutili riunioni che si facevano sempre con le stessa gente quella dirigenza preferiva far incontrare ad Antonio Di Pietro giovani universitari che accorrevano per ascoltarlo non in 25 o 80 ma in oltre 300. Alle decisioni prese dal singolo segretario regionale, quella dirigenza preferiva decisioni collegiali. La sede regionale, oggi vuota e chiusa, era nella disponibilità di tutti i militanti. Pertanto, quello che il 15 dicembre Antonio Di Pietro vuol proporci, noi lo avevamo già posto in essere. Quell'atto di scioglimento della struttura regionale non fu nemmeno motivato con una qualsivoglia, sia pur presunta, difformità dalla linea del partito. Semplicemente non fu motivato. E il dato di fatto è che il fedele colonnello di Di Pietro in Puglia non è riuscito a normalizzare il partito visto il risultato disastroso delle amministrative con percentuali sotto il 2%, e col partito che va in pezzi. Prima di noi non c'era nulla, ora non c'è più nulla».
Da quel giorno (il 28 giugno) per De Feudis e compagni l'interesse per le vicende dell'Italia dei Valori è divenuto inesistente. «Ora – scrivono - è il momento di compiere un atto di chiarezza, dopo il silenzio di questi mesi, nei confronti dei militanti che ci avevano sostenuti e che a ben pensare non avevamo mai fatto finora in forma collettiva e ufficiale: la nostra presa di distanza formale e pubblica dal partito. E' un passaggio che facciamo con la rabbia in corpo, poiché abbiamo la presunzione di affermare che avevamo chiaro in mente quale avrebbe dovuto essere il percorso del partito, ed era tutto scritto nelle nostre tesi congressuali. Avevamo in mente un partito che doveva riscattarsi dall'esercizio del facile antagonismo anti-berlusconiano e che, approfittando del vantaggio competitivo della sua rappresentanza in parlamento, desse voce ai conflitti sociali, e facesse da cerniera con i movimenti che ne scaturivano. Avevamo in mente un partito che si facesse interprete de quella esplosione di partecipazione e di senso civico dei 26 milioni di italiani che avevano votato per i referendum nel 2011. Era lì che si doveva, senza indugi, adottare e far propria la formidabile prospettiva legata alla difesa dei beni comuni, ed all'interno di essa orientare il lavoro politico alla ricostruzione, dal basso, di un rinnovato capitale civico. Il ruolo del partito era di quello recepire, valorizzare e contribuite a mettere in rete tutte le esperienze di democrazia partecipativa e di autoorganizzazione emergenti nelle comunità locali, confrontandosi con i nuovi protagonisti delle lotte nel rispetto delle loro autonomie. Era lì, attingendo da quelle lotte, che il partito avrebbe dovuto dispiegare un profondo rinnovamento dei suoi organici e conseguentemente dei suoi gruppi dirigenti. Solo rilanciando e sostenendo questo processo diffuso sarebbe stato utile portare a compimento l'operazione annunciata al congresso di Roma nel 2010: la cancellazione dal simbolo del nome di Di Pietro. Lo avevamo inteso come una progressiva devoluzione di poteri, di graduale rinuncia ad una gestione verticistica ed autoritaria, intollerante ad ogni differenza di vedute. Dietro il culto dell'unità del partito, in nome della quale sono state compiute le più becere epurazioni, si nascondeva semplicemente la volontà di autoconservazione dei gruppi dirigenti. E' da lì che nascono i problemi dell'Idv, non da Report».
L'Italia dei Valori, peraltro, come è successo a tutti gli altri partiti, è stata colta di sorpresa dall'avvento del governo Monti. «L'attuale premier ha avuto un grande merito: aver obbligato tutti a tornare alla politica vera, alla decisione di chi deve pagare il costo sanguinoso della crisi e di chi deve uscirne ancor più rafforzato. Ha riportato in primo piano, ed era ora, il conflitto sociale; tracciando una frattura ineludibile e obbligando tutti i soggetti in campo ad una scelta che esclude mediazioni. Ed anziché interpretare e valutare quello che sta accadendo l'Idv che fa? Segue, barcollando, un tracciato incomprensibile. Ora mendicando un posto nella coalizione di centrosinistra, ora proclamando il proprio sostegno alla Fiom, ora paventando una improbabile alleanza con Grillo. Oggi pensiamo che per risolvere i problemi dell'Idv si debba avere la consapevolezza di chi ci è ancora rimasto dentro. Primo Levi rimase sconfortato dalla consapevolezza di aver compreso che nei campi di concentramento c'erano rimasti i peggiori. Quelli che non avevano avuto il coraggio di ribellarsi, che avevano fatto patti con i nazisti. E' esattamente quello che sta accadendo nell'Idv. Da qui si deve ripartire. Senza di noi, però».
I firmatari ricostruiscono le tappe della rottura insanabile. «E' sotto gli occhi di tutti – scrivono - la profonda crisi che l'Idv attraversa. Una crisi che, banalmente, si vorrebbe imputare ad una campagna mediatica ostile. Il 2,9% riportato in Sicilia è però precedente a Report ed il non voler riconoscere le vere radici della crisi rappresenta l'ennesimo atto di cecità politica o il disperato tentativo di tenere insieme qualcosa. E' singolare la supplica con cui si scongiurano i militanti affinchè partecipino all'assemblea nazionale del 15 dicembre, una inusitata mitezza molto lontana dal pugno di ferro usato il 28 giugno del 2011 quando, immotivatamente, fu commissariata la struttura regionale consegnando la Puglia ad uno dei suoi più fedeli colonnelli di Di Pietro. E' opportuno sottolineare che quella struttura regionale era stata eletta da un congresso vero con la partecipazione di 800 delegati. In quante altre Regioni si era svolto un congresso non paternalisticamente pilotato dall'alto? Noi siamo quelli del 28 giugno, data in cui si concluse il nostro percorso nell'Italia dei Valori».
La vecchia base rivendica la bontà di quell'esperienza, il tentativo di dare all'Italia dei Valori di Puglia una tracciabilità politica autonoma, coerente con la vocazione del partito come attestava quel documento in 10 punti, approvato all'unanimità dal coordinamento, inviato all'ufficio di presidenza. «Piacque, evidentemente, poco alla direzione del partito – scrivono i 12 ex militanti – e piacque ancora meno la manifestata capacità di autonomia, e non piacque per niente la sensazione di poter perdere il controllo sul partito regionale. Con quella dirigenza, immotivatamente cancellata, i bilanci del partito erano finalmente a conoscenza e disposizione di tutti, le spese da affrontare condivise dall'intero coordinamento. Quella dirigenza alle feste regionali dell'Italia dei Valori pugliese prive di qualsiasi contenuto politico (alla festa regionale del 2011 a Bari c'erano circa 80 persone, a quella del 2012 a Taranto c'erano 25 persone) preferiva convegni seri e partecipati da numerosissima gente. Alle inutili riunioni che si facevano sempre con le stessa gente quella dirigenza preferiva far incontrare ad Antonio Di Pietro giovani universitari che accorrevano per ascoltarlo non in 25 o 80 ma in oltre 300. Alle decisioni prese dal singolo segretario regionale, quella dirigenza preferiva decisioni collegiali. La sede regionale, oggi vuota e chiusa, era nella disponibilità di tutti i militanti. Pertanto, quello che il 15 dicembre Antonio Di Pietro vuol proporci, noi lo avevamo già posto in essere. Quell'atto di scioglimento della struttura regionale non fu nemmeno motivato con una qualsivoglia, sia pur presunta, difformità dalla linea del partito. Semplicemente non fu motivato. E il dato di fatto è che il fedele colonnello di Di Pietro in Puglia non è riuscito a normalizzare il partito visto il risultato disastroso delle amministrative con percentuali sotto il 2%, e col partito che va in pezzi. Prima di noi non c'era nulla, ora non c'è più nulla».
Da quel giorno (il 28 giugno) per De Feudis e compagni l'interesse per le vicende dell'Italia dei Valori è divenuto inesistente. «Ora – scrivono - è il momento di compiere un atto di chiarezza, dopo il silenzio di questi mesi, nei confronti dei militanti che ci avevano sostenuti e che a ben pensare non avevamo mai fatto finora in forma collettiva e ufficiale: la nostra presa di distanza formale e pubblica dal partito. E' un passaggio che facciamo con la rabbia in corpo, poiché abbiamo la presunzione di affermare che avevamo chiaro in mente quale avrebbe dovuto essere il percorso del partito, ed era tutto scritto nelle nostre tesi congressuali. Avevamo in mente un partito che doveva riscattarsi dall'esercizio del facile antagonismo anti-berlusconiano e che, approfittando del vantaggio competitivo della sua rappresentanza in parlamento, desse voce ai conflitti sociali, e facesse da cerniera con i movimenti che ne scaturivano. Avevamo in mente un partito che si facesse interprete de quella esplosione di partecipazione e di senso civico dei 26 milioni di italiani che avevano votato per i referendum nel 2011. Era lì che si doveva, senza indugi, adottare e far propria la formidabile prospettiva legata alla difesa dei beni comuni, ed all'interno di essa orientare il lavoro politico alla ricostruzione, dal basso, di un rinnovato capitale civico. Il ruolo del partito era di quello recepire, valorizzare e contribuite a mettere in rete tutte le esperienze di democrazia partecipativa e di autoorganizzazione emergenti nelle comunità locali, confrontandosi con i nuovi protagonisti delle lotte nel rispetto delle loro autonomie. Era lì, attingendo da quelle lotte, che il partito avrebbe dovuto dispiegare un profondo rinnovamento dei suoi organici e conseguentemente dei suoi gruppi dirigenti. Solo rilanciando e sostenendo questo processo diffuso sarebbe stato utile portare a compimento l'operazione annunciata al congresso di Roma nel 2010: la cancellazione dal simbolo del nome di Di Pietro. Lo avevamo inteso come una progressiva devoluzione di poteri, di graduale rinuncia ad una gestione verticistica ed autoritaria, intollerante ad ogni differenza di vedute. Dietro il culto dell'unità del partito, in nome della quale sono state compiute le più becere epurazioni, si nascondeva semplicemente la volontà di autoconservazione dei gruppi dirigenti. E' da lì che nascono i problemi dell'Idv, non da Report».
L'Italia dei Valori, peraltro, come è successo a tutti gli altri partiti, è stata colta di sorpresa dall'avvento del governo Monti. «L'attuale premier ha avuto un grande merito: aver obbligato tutti a tornare alla politica vera, alla decisione di chi deve pagare il costo sanguinoso della crisi e di chi deve uscirne ancor più rafforzato. Ha riportato in primo piano, ed era ora, il conflitto sociale; tracciando una frattura ineludibile e obbligando tutti i soggetti in campo ad una scelta che esclude mediazioni. Ed anziché interpretare e valutare quello che sta accadendo l'Idv che fa? Segue, barcollando, un tracciato incomprensibile. Ora mendicando un posto nella coalizione di centrosinistra, ora proclamando il proprio sostegno alla Fiom, ora paventando una improbabile alleanza con Grillo. Oggi pensiamo che per risolvere i problemi dell'Idv si debba avere la consapevolezza di chi ci è ancora rimasto dentro. Primo Levi rimase sconfortato dalla consapevolezza di aver compreso che nei campi di concentramento c'erano rimasti i peggiori. Quelli che non avevano avuto il coraggio di ribellarsi, che avevano fatto patti con i nazisti. E' esattamente quello che sta accadendo nell'Idv. Da qui si deve ripartire. Senza di noi, però».