«Dovete morire»: dopo i fatti di Torino, parla la nipote del brigadiere Antonio Cezza

Alle urla di quella professoressa rispondono le parole di Francesca

giovedì 8 marzo 2018 0.44
A cura di Mariarosa Capone
Torino, la professoressa ai poliziotti: "Dovete morire!". C'è chi augura la morte ad un poliziotto e chi, per il suo lavoro, è morto davvero. E così mi viene subito in mente la storia di Antonio Cezza, il brigadiere dei carabinieri, nato a Cursi ma tranese di fatto, ucciso da un malvivente armato il 17 Luglio 1990.

Antonio non l'ho mai conosciuto ma lo immagino come in quel grande ritratto che regna nel salotto di casa di suo fratello Giuseppe, gli occhi che trasmettono la sicurezza e il coraggio di un uomo che indossa con onore la sua divisa. Oggi, dopo quello che è successo qualche giorno fa a Torino, parlerà per la prima volta Francesca, la nipote di Antonio Cezza. Francesca è nata dieci anni dopo quel maledetto giorno e suo zio non l'ha mai conosciuto.

«È da un po' di tempo che penso di entrare a far parte dell'Arma dei carabinieri e per farlo sto valutando di percorrere diverse strade. È per questo che la notizia in questione mi ha colpita più del solito. Per questo e per la tradizione da carabiniere della mia famiglia. Mio nonno, mio padre e mio zio erano rispettivamente maresciallo, carabiniere ausiliario e brigadiere dei carabinieri e hanno prestato servizio a Trani, Lecce e Melfi. Tutto è iniziato quando mio nonno aveva 17 anni e fu mandato a Palermo per diventare carabiniere, quasi come punizione per il suo carattere un po' pimpante per la sua epoca e da lì la passione tramandata ai suoi due figli: mio padre e mio zio, Giuseppe e Antonio Cezza.

Purtroppo nessuno si aspettava che sarebbe andata a finire così. Si pensa sempre che le notizie che si sentono al telegiornale non capiteranno mai a noi. - Sottufficiale addetto a nucleo operativo e radiomobile di Compagnia, appreso che in giardini pubblici della sede era in atto una grave rissa, sebbene libero dal servizio e in abiti civili interveniva prontamente insieme ad altri militari. Intercettato noto pregiudicato armato di fucile e in atteggiamento minaccioso lo affrontava con grande sprezzo del pericolo precedendo i commilitoni. Veniva ferito mortalmente dalla proditoria e ravvicinata azione di fuoco da parte del malvivente a cui aveva intimato la resa. Fulgido esempio di elette virtù militari, altissimo senso del dovere e di generoso altruismo spinti fino al supremo sacrificio - . Questa è stata la motivazione utilizzata per attribuire la medaglia d'argento quando, quel 17 luglio del 1990, mio zio è stato gravemente ferito alla testa da un malvivente armato, morendo dopo cinque lunghi giorni di coma.

Purtroppo, o per fortuna, non ho fatto in tempo a conoscere mio zio. Dico "purtroppo" perché ho sempre voluto uno zio con cui confidarmi e a cui chiedere come sia la vita da carabiniere. Dico, invece, per fortuna perché non mi si è straziato il cuore quando, in una giornata che sembrava come tante altre, è arrivata la notizia e da quel momento niente è stato più lo stesso. Perché bisogna sempre tener presente che dietro la divisa e il suo significato, c'è sempre un Uomo, un essere umano con una famiglia alle spalle. Un carabiniere non è solo colui che si mette al completo servizio dello Stato, un carabiniere è prima di tutto un uomo che per svolgere il suo lavoro mette costantemente a rischio la sua vita. Quindi, mi chiedo, come si può augurare a qualcuno che davvero è a contatto costante con la morte, di affrontarla e di uscirne sconfitto?

Io proprio non me ne capacito. Bisognerebbe ricordare sempre che dietro quella divisa, che molte volte si identifica come "nemica", chissà poi perché, c'è una vita non proprio facile, fatta più di sacrifici che agi, di regole ferree, di ideali e valori da usare come linee guida. Questo mestiere è una vera e propria vocazione. Bisognerebbe dar loro il legittimo riconoscimento, perché ci sono più eroi tra le forze dell'ordine che tra gli idoli più disparati degli adolescenti.

È per tutto questo che non so se intraprendere o meno questa vita, forse non sono abbastanza pronta a mettere a rischio la mia vita per uno Stato che non è ancora in grado di apprezzarlo».

Alle urla di quella professoressa rispondono le parole di Francesca che arrivano dritte al cuore, le parole che rappresentano le mogli, i genitori, i figli, i nipoti, le famiglie di chi ogni giorno si alza per proteggere l'Italia.