La versione di latino, il giornalismo e la vacuità
Lettera in redazione di Donato De Ceglie
domenica 15 novembre 2009
Il caso della versione di latino su Berlusconi fatta svolgere nel liceo scientifico Vecchi di Trani (storia rivelatasi una boutade) è argomento che da spunto alle riflessioni di un lettore di Traniweb.
«Caro direttore, mi sia permessa, una "valutazione a freddo" (mi scusi il noto giornalista italiano al quale rubo l'espressione). Mi sono affacciato al mondo del giornalismo da pochissimo, sono ancora sulla soglia della porta. Sto facendo la classica gavetta a suon di strada e suole consumate. Mi diverte il pensiero di poter un giorno, entrare nella grande casa del giornalismo. Per ora cerco di imparare ciò che posso, cogliendo ogni minimo particolare di questo lavoro in continua evoluzione.
Nella giornata di ieri ho dovuto, mio malgrado, osservare l'ennesimo atto involutivo cui a volte è obbligato il giornalismo. Quando dall'informazione si passa alla deformazione, quando dalla penna si passa alla panna (montata ad arte, sia da intendere), quando il giornalista cede il passo al diffusore di fatterelli, il giornalismo cade nel baratro della vacuità. Dall'articolo alla versione dei fatti della classe e della professoressa, passando dal comunicato della Carlucci (?!), il fatto ha cambiato una decina di colori. Letto l'articolo, ho riso. Riletto l'articolo, ho provato vergogna; per la vacuità di cui parlavo prima, sia chiaro. Nel caso ipotetico che: la versione l'avesse scritta la professoressa; nella versione ci fosse stata tutta la storia di Silvio in breve (ai maliziosi: il breve è riferito esclusivamente all'ipotetica lunghezza della versione). Quale crimine avrebbe pesato sulla testa della professoressa? Quale bestemmia? Quale atto irriverente e destabilizzante?
Letto l'articolo, ho voluto subito controllare nelle pagine a seguire, che ci fosse qualche altro scoop. Non so, magari un articolo scandalistico sul freddo pungente, o su improvvisi rovesci o magari sul tempo che sfugge. E se la professoressa facesse politica in classe? Beh, che almeno sia fatta lì, mi verrebbe da dire. Ritornando all'articolo, mi ha trovato preparatissimo la chiosa moralistica. "Il rischio è che, tra qualche tempo, Berlusconi inizi a farsi chiamare Augusto, e nomini Giulio Cesare i suoi fedeli collaboratori Giulio Tremonti e Cesare Previti. Già pronto il motto della nuova repubblica. S.P.Q.R.: Silvius Populusque Romanus". Dopo una cinquantina di righe di accuse alla professoressa di essere stata "predatrice" del premier e del buon latino, ce ne volevano ulteriori quattro per accusarla di essere anche colpevole dell'ascesa del suddetto.
Inutile soffermarsi su chi si è rivelata prontissima ad accusare e promettere grandi sanzioni nei confronti dell'aria fritta. Tutti ferventi sostenitori di simboli fino ad ora neanche pensati, tutti latinisti affermati grazie ad una pubblicità. Non darò la mia solidarietà alla professoressa, dato che non accetto il fatto che ci si debba scusare per essere stati accusati ingiustamente. Volgo la mia solidarietà al giornalista, fratello inconsapevole, autore di un articolo di gossip che magari ha voluto e ottenuto tanto clamore quanto basta per coprire i (mis?)fatti di altri personaggi ben più noti. Spero di dover imbattermi meno volte in involuzioni giornalistiche del genere.
Avrei voluto concludere con una frase del tipo "Su una parete della nostra scuola c'è scritto grande "I care". È il motto intraducibile dei giovani americani migliori: "me ne importa, mi sta a cuore". È il contrario esatto del motto fascista "me ne frego" di don Milani, o un'altra del tipo "Sempre allegri bisogna stare, che il nostro piangere fa male al re. Fa male al ricco e al cardinale, diventan tristi se noi piangiam" o ancora "Qui auget scientiam, auget et dolorem. Qui auget dolorem, auget et scientiam." , concluderò però con una frase di Bukowski (anche se nel frattempo, grazie al dono della scelta, ho concluso con tutte queste citazioni): "Dannatamente piacevole è essere un intellettuale o uno scrittore e osservare tutte queste quisquilie, fintanto che non è il tuo deretano preso a zampate. Ecco una cosa che non va, con gli intellettuali e gli scrittori: sono sensibili solo alle loro gioie e ai loro dolori. Il che è normale ma schifoso».
Donato De Ceglie
«Caro direttore, mi sia permessa, una "valutazione a freddo" (mi scusi il noto giornalista italiano al quale rubo l'espressione). Mi sono affacciato al mondo del giornalismo da pochissimo, sono ancora sulla soglia della porta. Sto facendo la classica gavetta a suon di strada e suole consumate. Mi diverte il pensiero di poter un giorno, entrare nella grande casa del giornalismo. Per ora cerco di imparare ciò che posso, cogliendo ogni minimo particolare di questo lavoro in continua evoluzione.
Nella giornata di ieri ho dovuto, mio malgrado, osservare l'ennesimo atto involutivo cui a volte è obbligato il giornalismo. Quando dall'informazione si passa alla deformazione, quando dalla penna si passa alla panna (montata ad arte, sia da intendere), quando il giornalista cede il passo al diffusore di fatterelli, il giornalismo cade nel baratro della vacuità. Dall'articolo alla versione dei fatti della classe e della professoressa, passando dal comunicato della Carlucci (?!), il fatto ha cambiato una decina di colori. Letto l'articolo, ho riso. Riletto l'articolo, ho provato vergogna; per la vacuità di cui parlavo prima, sia chiaro. Nel caso ipotetico che: la versione l'avesse scritta la professoressa; nella versione ci fosse stata tutta la storia di Silvio in breve (ai maliziosi: il breve è riferito esclusivamente all'ipotetica lunghezza della versione). Quale crimine avrebbe pesato sulla testa della professoressa? Quale bestemmia? Quale atto irriverente e destabilizzante?
Letto l'articolo, ho voluto subito controllare nelle pagine a seguire, che ci fosse qualche altro scoop. Non so, magari un articolo scandalistico sul freddo pungente, o su improvvisi rovesci o magari sul tempo che sfugge. E se la professoressa facesse politica in classe? Beh, che almeno sia fatta lì, mi verrebbe da dire. Ritornando all'articolo, mi ha trovato preparatissimo la chiosa moralistica. "Il rischio è che, tra qualche tempo, Berlusconi inizi a farsi chiamare Augusto, e nomini Giulio Cesare i suoi fedeli collaboratori Giulio Tremonti e Cesare Previti. Già pronto il motto della nuova repubblica. S.P.Q.R.: Silvius Populusque Romanus". Dopo una cinquantina di righe di accuse alla professoressa di essere stata "predatrice" del premier e del buon latino, ce ne volevano ulteriori quattro per accusarla di essere anche colpevole dell'ascesa del suddetto.
Inutile soffermarsi su chi si è rivelata prontissima ad accusare e promettere grandi sanzioni nei confronti dell'aria fritta. Tutti ferventi sostenitori di simboli fino ad ora neanche pensati, tutti latinisti affermati grazie ad una pubblicità. Non darò la mia solidarietà alla professoressa, dato che non accetto il fatto che ci si debba scusare per essere stati accusati ingiustamente. Volgo la mia solidarietà al giornalista, fratello inconsapevole, autore di un articolo di gossip che magari ha voluto e ottenuto tanto clamore quanto basta per coprire i (mis?)fatti di altri personaggi ben più noti. Spero di dover imbattermi meno volte in involuzioni giornalistiche del genere.
Avrei voluto concludere con una frase del tipo "Su una parete della nostra scuola c'è scritto grande "I care". È il motto intraducibile dei giovani americani migliori: "me ne importa, mi sta a cuore". È il contrario esatto del motto fascista "me ne frego" di don Milani, o un'altra del tipo "Sempre allegri bisogna stare, che il nostro piangere fa male al re. Fa male al ricco e al cardinale, diventan tristi se noi piangiam" o ancora "Qui auget scientiam, auget et dolorem. Qui auget dolorem, auget et scientiam." , concluderò però con una frase di Bukowski (anche se nel frattempo, grazie al dono della scelta, ho concluso con tutte queste citazioni): "Dannatamente piacevole è essere un intellettuale o uno scrittore e osservare tutte queste quisquilie, fintanto che non è il tuo deretano preso a zampate. Ecco una cosa che non va, con gli intellettuali e gli scrittori: sono sensibili solo alle loro gioie e ai loro dolori. Il che è normale ma schifoso».
Donato De Ceglie