Trani: tempi biblici per le cause civili, una lettera a Traniweb

Rivolta al Presidente del Tribunale:«Aspetto da oltre 17 anni»

sabato 1 novembre 2008
Tempi biblici per la conclusione delle cause civili. Ne aveva parlato Nicola Barbera, per otto anni Procuratore del Tribunale di Trani, ospite della rubrica "Un caffé con". «Il Tribunale di Trani gode di ottima salute - aveva detto Barbera. Il penale ha una pendenza ridicola, siamo ad un livello di circa centocinquanta processi. Ciò vuol dire che i processi si celebrano con lo stesso ritmo con cui vengono confezionati dalle Procure. Un problema, semmai, vi è per le cause civili anche se le ultime statistiche mi tranquillizzano: Trani è uno dei Tribunali più produttivi d'Italia, confeziona gli stessi numeri del Tribunale di Bari che ha un organico quasi tre volte superiore al nostro. I magistrati tranesi, dunque, lavorano molto meglio dei colleghi baresi in virtù di un migliore standard di organizzazione». Questa l'opinione di Barbera. Di seguito invece riportiamo il testo di una lettera, indirizzata a Traniweb e rivolta al Presidente del Tribunale di Trani, firmata da un lettore che attende daoltre 17 la conclusione di una causa civile. Ecco il testo. «Ill.mo Presidente del Tribunale di Trani, a distanza di qualche mese dal Suo insediamento presso il Tribunale di Trani, voglio redigere la presente per esporre uno dei più noti ed emblematici problemi da cui è afflitta la Giustizia italiana, da anni diventato forse un luogo comune, ma non per questo meno attuale e pregnante. Sono a scrivere da comune cittadino che si trova con una causa civile pendente iscritta a ruolo nel lontano 1991 (oltre 17 anni).

Nella ferma convinzione che proprio i tempi "biblici" della giustizia italiana sono una delle principali ragioni della profonda sfiducia dei cittadini nella magistratura chiedo il Suo intervento per porre fine a questa incresciosa situazione, poiché come spesso è stato detto: "una giustizia ritardata equivale ad una giustizia denegata". Un rammarico che è stato esplicitato al termine del suo mandato anche dal Presidente Emerito della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi.

Continuo fermamente a credere che ogni violazione delle scansioni temporali del processo si ripercuote sull' interesse delle parti ad ottenere la sentenza e la sua esecuzione, che col passare del tempo crea una lancinante frustrazione nelle aspettative di chi sia interessato ad ottenere una siffatta pronuncia, mostrando perlopiù l'incapacità del sistema ad offrire una risposta valida alla richiesta di giustizia proveniente dalla collettività.

Eppure il concetto di ragionevole durata del processo, che spesso condiziona anche la competitività economica del nostro Paese negli scenari comunitari e internazionali, è ormai permeato negli strati più profondi dello Stato italiano. Già inserito nell'art. 6 della "Convenzione della salvaguardia dei diritti dell'Uomo" del 1950, è diventato principio costituzionale sancito solennemente dall'art. 111 Cost. Ad onor del vero, questa giustizia denegata, spesso è dovuta non solo o non tanto alla poco razionale organizzazione degli uffici giudiziari, ma perlopiù alle callide strategie difensive di parti talvolta interessate esclusivamente a fare il possibile perché si eviti che il giudizio addivenga ad una puntuale definizione, avvallati da legali che pensano solo al proprio tornaconto (dum pendet, rendet).

Un'analisi condivisa da tutti ed in particolare dagli stessi magistrati, spesso bersagliati dall'immeritata e devastante accusa di non lavorare abbastanza. E per rompere questa spirale perversa serve l'aiuto di tutti e non solo di quei magistrati diligenti e capaci che come nel mio caso (G.I. dr.ssa Emma Manzionna), cercano con ogni mezzo di portare ad una celere definizione vetuste vertenze giudiziarie. L'obiettivo della ragionevole durata dei processi civili, seppure apparentemente ambizioso, non è irraggiungibile. L'esempio, che mi viene in mente, è quello messo in atto presso il Tribunale di Torino denominato "Programma Strasburgo" stilato ad opera del Presidente Mario Barbuto.
La "giustizia amministrata nel nome del popolo", così come vuole la Costituzione, si legittima agli occhi dei cittadini nella misura in cui riesce a riconoscere e a soddisfare i loro diritti. Questa legittimazione si esprime conclusivamente, tanto nella realtà quanto a livello simbolico, nella sentenza pronunciata dal giudice».

Lettera firmata