Religioni
Trani si appresta a vivere il Yom Kippur
Il 27 e 28 settembre alla sinagoga Scolanova
Trani - mercoledì 23 settembre 2009
Come ogni anno anche la comunità ebraica di Trani si appresta a vivere il Yom Kippur (27-28 settembre p.v.) nel modo più intenso e sereno. «Non a caso "sereno" perchè, pur essendo un Giorno carico di teshuvà, affermazione spietata delle colpe personali nei riguardi di Dio e degli uomini, mortificazione nel digiuno più totale, esso va vissuto in spirito comunitario ed estrema fiducia che le porte dei Cieli non si chiuderanno senza che il nostro nome non venga iscritto nel Libro della Vita.
Vivere insieme (ossia in comunità, nella sinagoga) il Yom Kippur aiuta; alleggerisce il peso del digiuno, rende migliore la tefillà (preghiera), spinge ad aprire cuore e mente all'Hashem ma innanzitutto ad amici e fratelli. Le tefilloth saranno tenute dal hazan Michele Avraham De Prisco. Allo scopo di prepararsi maggiormente al Yom Kippur, ecco una bellissima derashà del Rav Shalom Bahbout che in questo modo fà sentire vicina la Sua presenza a Trani come ha fatto a Rosh haShanà».
Parole, preghiera e maldicenza
Grande protagonista dei giorni solenni che vanno da Rosh hashanà a Kippur è la parola. Mentre la mente e lo spirito sono impegnati a riflettere per fare un esame di coscienza e analizzare le azioni fatte o non fatte nel corso dell'ultimo anno, la bocca – il tramite attraverso cui passano le parole - è impegnata nel recitare le preghiere e il viddui (la confessione delle colpe commesse). In ebraico bocca si dice PE, una delle lettere dell'alfabeto ebraico che ha due forme: una chiusa פ e una aperta ף (che si usa in fine di parola). Che la parola sia l'elemento che caratterizza l'uomo e lo differenzia dagli altri esseri, è messo in evidenza da Onqelos: nel racconto della creazione egli traduce l'espressione nèfesh chajà (l'uomo divenne un essere vivente) con le parole "spirito parlante". Dopo aver osservato che anche gli animali vengono chiamati nefesh chajà, Rashi aggiunge che ciò che caratterizza l'uomo rispetto agli animali è il fatto che "gli è stata aggiunta la conoscenza e la parola": l'uso corretto o meno di quest'ultima può portare l'uomo a realizzare se stesso, a raggiungere la missione assegnatali, oppure farlo decadere dal ruolo assegnatoli da Dio.
Quanto sia rilevante la parola è dimostrato dall'affermazione che è "la parola dei bambini che sostiene il mondo", infatti questi, a differenza dei sapienti, sono liberi dal peccato. Secondo il Talmud (niddà 30b), il feto apprende tutta la Torà mentre si trova dentro il ventre materno, ma al momento della nascita un angelo lo colpisce sulla bocca e gliela fa dimenticare. Prima della nascita il feto non può esprimere i pensieri con parole, ma al momento della nascita diventa "parlante" e dovrà essere capace di dominare tutta la Torà ed esprimerla con espressioni umanamente comprensibili. La stessa forma della lettera PE accennerebbe proprio a questo: le sue due forme (quella chiusa פ e quella aperta ף) può essere paragonata al feto nelle due situazioni: prima della nascita - quando è in posizione fetale e non può parlare - e dopo la nascita, quando apre finalmente la bocca. Qual è la funzione che ha la parola il giorno di kippur? Il Talmud afferma che "devarim shebalev enam devarim " (le parole che rimangono nel cuore non hanno effetto", kiddushin 49b) e questo è almeno uno dei motivi per cui il viddui deve essere fatto enunciando le proprie colpe con la bocca. La stessa regola si applica, ad esempio, a Pesach all'annullamento delle sostanze lievitate (hametz), che si fa mediante una formula da recitare prima di Pasqua, oppure alla norma che stabilisce che il verbo "zakhor, ricorda" va messo in pratica leggendo il passo biblico che inizia con le parole ricorda cosa ti fece Amalek. Ma se c'è un tempo per parlare, c'è anche un tempo per tacere: vi sono momenti in cui il silenzio è da privilegiare alla parola.
Nei giorni di Kippur in cui ci si prepara a fare un uso continuo della parola è quindi importante e vitale riflettere sul proprio passato e vedere se si è fatto un uso improprio della parola (lanciando calunnie, facendo maldicenza, usando lashon gassà - turpiloquio): come dice la mishnà nel trattato di Iomà, il perdono divino non viene accordato se prima non si è richiesto e si è ricevuto perdono dal prossimo. Vale la pena ricordare che questo tipo di trasgressione - la calunnia, la maldicenza, il turpiloquio - è oggi uno dei più comuni, a livello nazionale e comunitario (i gossip imperversano ovunque). Le norme della legge ebraica sulla maldicenza sono estremamente rigorose e, purtroppo, è facile incorrere anche involontariamente in questa trasgressione: si può fare maldicenza perfino nel comunicare un fatto vero. Le leggi che riguardano la maldicenza coprono una vasta area e coinvolgono molte figure: gli editori dei giornali, i giornalisti, i tipografi, i giudici: ognuno per le sue competenze. Negli ultimi mesi i media hanno sommerso la società con informazioni su personaggi politici (e non) di primo piano, provenienti spesso da indagini relative a processi ancora in corso o addirittura da indiscrezioni riservate e registrazioni la cui diffusione era proibita: ognuno è bene o male esposto a queste informazioni (giornali, telegiornali ecc). Ora la Torà proibisce la diffusione per via orale di calunnie e maldicenza, e proibisce in linea di massima la presenza del pubblico ai processi, ma come si pone di fronte all'uso dei media?
Ecco alcuni problemi cui la Halakhà cerca di dare una risposta:
- si possono usare giornali, manifesti, trasmissioni radiofoniche e televisive per diffondere notizie e/o di nomi di persone incriminate, prima che sia emessa la sentenza?
- qual è la posizione del giornalista, del lettore, del telespettatore, dell'editore, della tipografia, dei giudici che diffondono sentenze passate in giudicato o informazioni su processi in corso o che prendono per buone delle voci senza averne verificato la veridicità mediante testimonianze?
Senza entrare in un'analisi dettagliata (per la quale rimandiamo a Torath Chajim, Quaderni di attualità ebraica n°91), si possono indicare le seguenti linee generali:
Diffondere attraverso i media fatti riguardanti la vita privata di una persona è certamente più grave che farlo oralmente. Circa la diffusione di fatti privati, la Halakhà fa una netta distinzione tra le norme da applicare al caso in cui la rivelazione ha effetto sul solo singolo o sulla collettività.
Se la diffusione di notizie riservate ha effetto solo sul singolo, questa può essere fatta a queste condizioni:
- le accuse siano state analizzate in tutti i dettagli e sia stato chiarito al di fuori di ogni dubbio che esse sono vere;
- la persona accusata di un comportamento spregevole è stata prima ammonita in privato e non ha accettato l'ammonizione;
- la pubblicazione degli atti commessi comporta un vantaggio per la collettività e vi è la fondata speranza che ciò possa indurre l'uomo a comportarsi bene per il futuro;
- la diffusione tramite i media porta ai risultati di cui alla condizione precedente.
Se la pubblicazione riguarda questioni che hanno effetto sulla collettività, questa è permessa a queste condizioni:
- la notizia è fondata, ma è necessario diffondere su cosa è basata (risultato di una indagine approfondita, o di un ascolto e visione diretta di chi la pubblica, o dall'averla ascoltata da una fonte assolutamente attendibile, o come conseguenza logica di azioni o di dichiarazioni fatte);
- un'interpretazione può essere pubblicata a condizione che venga segnalato su cosa si basa;
- la persona accusata deve poter conoscere l'informazione prima che venga pubblicata e pubblicare una risposta attraverso lo stesso mezzo di comunicazione
- il mezzo di comunicazione utilizzato dalla persona accusata deve essere adatto al pubblico cui è diretto.
Le norme sulla maldicenza sono complesse e oggi che i media hanno invaso la nostra vita, educare la nostra parola può evitare il degrado della vita privata prima e di quella pubblica. Può sembrare riduttivo dare tutta questa importanza all'educazione a un uso appropriato della parola: infatti potrebbe essere più opportuno cercare di cambiare la società educando la persona a comportarsi bene e a compiere le giuste azioni. Una risposta a questa domanda troviamo nel midrash (Vajikrà Rabbà 16:2): "Chi è l'uomo che desidera la vita che ama vedere il benessere per molti giorni? Trattieni la tua lingua dalla maldicenza e le tue labbra dal dire cose ingannevoli. Allontanati dal male e fa' il bene, cerca la pace e corrile dietro (Salmi 34°, 13-15). Un venditore ambulante girava per i paesi vicini a Zipporì e proclamava: "Chi vuol acquistare una medicina che dà la vita". Le persone lo pressavano per acquistare la medicina. Rabbi Jannài era sdraiato nel suo triclinio a studiare la Torà e lo sentì mentre proclamava: "Chi vuol acquistare una medicina che dà la vita?" Gli disse: "Vieni qui e vendimela". Il venditore gli rispose: "Non sei tu che hai bisogno di questa medicina e neanche le persone come te". Ma egli insistette e quello andò da Rabbi Jannài. Il venditore tirò fuori il libro dei Salmi e gli mostrò il verso: "Chi è l'uomo che desidera la vita …" e aggiunse cosa c'è scritto dopo? Trattieni la tua lingua dalla maldicenza". Disse Rabbi Jannai: "Per tutta la mia vita ho letto questo verso, ma non avevo capito quanto fosse semplice, finché non è venuto questo venditore ambulante che mi ha detto: "Chi è l'uomo che desidera la vita…"..
Qual è l'insegnamento così nuovo che Rabbi Jannài imparò dal venditore ambulante? Rabbi Jannài pensava che la parte fondamentale di questo passo dei Salmi fossero i due versi nella loro interezza, e cioè la medicina che dà la vita è l'intera osservanza della legge (come si deduce dai versi finali). Solo ora Rabbi Jannài ha capito che l'osservanza della norma "Trattieni la lingua dal dire maldicenza" è la garanzia per arrivare all'osservanza automatica delle altre mitzvoth. Secondo i Maestri, la maldicenza è una colpa grave in quanto uccide tre persone: la persona che la fa, chi l'ascolta e quella verso cui è diretta. Non si tratta evidentemente di una morte fisica (anche se in taluni casi una calunnia o una maldicenza possono distruggere una persona sia in senso fisico che morale: Le parole sono pietre). Kippur è un'occasione quasi unica per fare i conti con le proprie parole: le innumerevoli nostre preghiere non possono riscattare l'uso così dicotomico che si fa della parola: infatti la purezza che deva avere la preghiera mal si accompagna con la maldicenza. Con l'augurio che ognuno possa trasformare la sua lingua in lashon kodesh, una lingua che parla solo di cose sacre.
Scialom Bahbout
(Scritto in occasione di Jom Kippur 5770 per la Comunità ebraica di Trani)
Vivere insieme (ossia in comunità, nella sinagoga) il Yom Kippur aiuta; alleggerisce il peso del digiuno, rende migliore la tefillà (preghiera), spinge ad aprire cuore e mente all'Hashem ma innanzitutto ad amici e fratelli. Le tefilloth saranno tenute dal hazan Michele Avraham De Prisco. Allo scopo di prepararsi maggiormente al Yom Kippur, ecco una bellissima derashà del Rav Shalom Bahbout che in questo modo fà sentire vicina la Sua presenza a Trani come ha fatto a Rosh haShanà».
Parole, preghiera e maldicenza
Grande protagonista dei giorni solenni che vanno da Rosh hashanà a Kippur è la parola. Mentre la mente e lo spirito sono impegnati a riflettere per fare un esame di coscienza e analizzare le azioni fatte o non fatte nel corso dell'ultimo anno, la bocca – il tramite attraverso cui passano le parole - è impegnata nel recitare le preghiere e il viddui (la confessione delle colpe commesse). In ebraico bocca si dice PE, una delle lettere dell'alfabeto ebraico che ha due forme: una chiusa פ e una aperta ף (che si usa in fine di parola). Che la parola sia l'elemento che caratterizza l'uomo e lo differenzia dagli altri esseri, è messo in evidenza da Onqelos: nel racconto della creazione egli traduce l'espressione nèfesh chajà (l'uomo divenne un essere vivente) con le parole "spirito parlante". Dopo aver osservato che anche gli animali vengono chiamati nefesh chajà, Rashi aggiunge che ciò che caratterizza l'uomo rispetto agli animali è il fatto che "gli è stata aggiunta la conoscenza e la parola": l'uso corretto o meno di quest'ultima può portare l'uomo a realizzare se stesso, a raggiungere la missione assegnatali, oppure farlo decadere dal ruolo assegnatoli da Dio.
Quanto sia rilevante la parola è dimostrato dall'affermazione che è "la parola dei bambini che sostiene il mondo", infatti questi, a differenza dei sapienti, sono liberi dal peccato. Secondo il Talmud (niddà 30b), il feto apprende tutta la Torà mentre si trova dentro il ventre materno, ma al momento della nascita un angelo lo colpisce sulla bocca e gliela fa dimenticare. Prima della nascita il feto non può esprimere i pensieri con parole, ma al momento della nascita diventa "parlante" e dovrà essere capace di dominare tutta la Torà ed esprimerla con espressioni umanamente comprensibili. La stessa forma della lettera PE accennerebbe proprio a questo: le sue due forme (quella chiusa פ e quella aperta ף) può essere paragonata al feto nelle due situazioni: prima della nascita - quando è in posizione fetale e non può parlare - e dopo la nascita, quando apre finalmente la bocca. Qual è la funzione che ha la parola il giorno di kippur? Il Talmud afferma che "devarim shebalev enam devarim " (le parole che rimangono nel cuore non hanno effetto", kiddushin 49b) e questo è almeno uno dei motivi per cui il viddui deve essere fatto enunciando le proprie colpe con la bocca. La stessa regola si applica, ad esempio, a Pesach all'annullamento delle sostanze lievitate (hametz), che si fa mediante una formula da recitare prima di Pasqua, oppure alla norma che stabilisce che il verbo "zakhor, ricorda" va messo in pratica leggendo il passo biblico che inizia con le parole ricorda cosa ti fece Amalek. Ma se c'è un tempo per parlare, c'è anche un tempo per tacere: vi sono momenti in cui il silenzio è da privilegiare alla parola.
Nei giorni di Kippur in cui ci si prepara a fare un uso continuo della parola è quindi importante e vitale riflettere sul proprio passato e vedere se si è fatto un uso improprio della parola (lanciando calunnie, facendo maldicenza, usando lashon gassà - turpiloquio): come dice la mishnà nel trattato di Iomà, il perdono divino non viene accordato se prima non si è richiesto e si è ricevuto perdono dal prossimo. Vale la pena ricordare che questo tipo di trasgressione - la calunnia, la maldicenza, il turpiloquio - è oggi uno dei più comuni, a livello nazionale e comunitario (i gossip imperversano ovunque). Le norme della legge ebraica sulla maldicenza sono estremamente rigorose e, purtroppo, è facile incorrere anche involontariamente in questa trasgressione: si può fare maldicenza perfino nel comunicare un fatto vero. Le leggi che riguardano la maldicenza coprono una vasta area e coinvolgono molte figure: gli editori dei giornali, i giornalisti, i tipografi, i giudici: ognuno per le sue competenze. Negli ultimi mesi i media hanno sommerso la società con informazioni su personaggi politici (e non) di primo piano, provenienti spesso da indagini relative a processi ancora in corso o addirittura da indiscrezioni riservate e registrazioni la cui diffusione era proibita: ognuno è bene o male esposto a queste informazioni (giornali, telegiornali ecc). Ora la Torà proibisce la diffusione per via orale di calunnie e maldicenza, e proibisce in linea di massima la presenza del pubblico ai processi, ma come si pone di fronte all'uso dei media?
Ecco alcuni problemi cui la Halakhà cerca di dare una risposta:
- si possono usare giornali, manifesti, trasmissioni radiofoniche e televisive per diffondere notizie e/o di nomi di persone incriminate, prima che sia emessa la sentenza?
- qual è la posizione del giornalista, del lettore, del telespettatore, dell'editore, della tipografia, dei giudici che diffondono sentenze passate in giudicato o informazioni su processi in corso o che prendono per buone delle voci senza averne verificato la veridicità mediante testimonianze?
Senza entrare in un'analisi dettagliata (per la quale rimandiamo a Torath Chajim, Quaderni di attualità ebraica n°91), si possono indicare le seguenti linee generali:
Diffondere attraverso i media fatti riguardanti la vita privata di una persona è certamente più grave che farlo oralmente. Circa la diffusione di fatti privati, la Halakhà fa una netta distinzione tra le norme da applicare al caso in cui la rivelazione ha effetto sul solo singolo o sulla collettività.
Se la diffusione di notizie riservate ha effetto solo sul singolo, questa può essere fatta a queste condizioni:
- le accuse siano state analizzate in tutti i dettagli e sia stato chiarito al di fuori di ogni dubbio che esse sono vere;
- la persona accusata di un comportamento spregevole è stata prima ammonita in privato e non ha accettato l'ammonizione;
- la pubblicazione degli atti commessi comporta un vantaggio per la collettività e vi è la fondata speranza che ciò possa indurre l'uomo a comportarsi bene per il futuro;
- la diffusione tramite i media porta ai risultati di cui alla condizione precedente.
Se la pubblicazione riguarda questioni che hanno effetto sulla collettività, questa è permessa a queste condizioni:
- la notizia è fondata, ma è necessario diffondere su cosa è basata (risultato di una indagine approfondita, o di un ascolto e visione diretta di chi la pubblica, o dall'averla ascoltata da una fonte assolutamente attendibile, o come conseguenza logica di azioni o di dichiarazioni fatte);
- un'interpretazione può essere pubblicata a condizione che venga segnalato su cosa si basa;
- la persona accusata deve poter conoscere l'informazione prima che venga pubblicata e pubblicare una risposta attraverso lo stesso mezzo di comunicazione
- il mezzo di comunicazione utilizzato dalla persona accusata deve essere adatto al pubblico cui è diretto.
Le norme sulla maldicenza sono complesse e oggi che i media hanno invaso la nostra vita, educare la nostra parola può evitare il degrado della vita privata prima e di quella pubblica. Può sembrare riduttivo dare tutta questa importanza all'educazione a un uso appropriato della parola: infatti potrebbe essere più opportuno cercare di cambiare la società educando la persona a comportarsi bene e a compiere le giuste azioni. Una risposta a questa domanda troviamo nel midrash (Vajikrà Rabbà 16:2): "Chi è l'uomo che desidera la vita che ama vedere il benessere per molti giorni? Trattieni la tua lingua dalla maldicenza e le tue labbra dal dire cose ingannevoli. Allontanati dal male e fa' il bene, cerca la pace e corrile dietro (Salmi 34°, 13-15). Un venditore ambulante girava per i paesi vicini a Zipporì e proclamava: "Chi vuol acquistare una medicina che dà la vita". Le persone lo pressavano per acquistare la medicina. Rabbi Jannài era sdraiato nel suo triclinio a studiare la Torà e lo sentì mentre proclamava: "Chi vuol acquistare una medicina che dà la vita?" Gli disse: "Vieni qui e vendimela". Il venditore gli rispose: "Non sei tu che hai bisogno di questa medicina e neanche le persone come te". Ma egli insistette e quello andò da Rabbi Jannài. Il venditore tirò fuori il libro dei Salmi e gli mostrò il verso: "Chi è l'uomo che desidera la vita …" e aggiunse cosa c'è scritto dopo? Trattieni la tua lingua dalla maldicenza". Disse Rabbi Jannai: "Per tutta la mia vita ho letto questo verso, ma non avevo capito quanto fosse semplice, finché non è venuto questo venditore ambulante che mi ha detto: "Chi è l'uomo che desidera la vita…"..
Qual è l'insegnamento così nuovo che Rabbi Jannài imparò dal venditore ambulante? Rabbi Jannài pensava che la parte fondamentale di questo passo dei Salmi fossero i due versi nella loro interezza, e cioè la medicina che dà la vita è l'intera osservanza della legge (come si deduce dai versi finali). Solo ora Rabbi Jannài ha capito che l'osservanza della norma "Trattieni la lingua dal dire maldicenza" è la garanzia per arrivare all'osservanza automatica delle altre mitzvoth. Secondo i Maestri, la maldicenza è una colpa grave in quanto uccide tre persone: la persona che la fa, chi l'ascolta e quella verso cui è diretta. Non si tratta evidentemente di una morte fisica (anche se in taluni casi una calunnia o una maldicenza possono distruggere una persona sia in senso fisico che morale: Le parole sono pietre). Kippur è un'occasione quasi unica per fare i conti con le proprie parole: le innumerevoli nostre preghiere non possono riscattare l'uso così dicotomico che si fa della parola: infatti la purezza che deva avere la preghiera mal si accompagna con la maldicenza. Con l'augurio che ognuno possa trasformare la sua lingua in lashon kodesh, una lingua che parla solo di cose sacre.
Scialom Bahbout
(Scritto in occasione di Jom Kippur 5770 per la Comunità ebraica di Trani)