Apatheia
La cura
Muore prima chi è più povero e meno istruito
martedì 25 ottobre 2011
Muore prima ed è più malato chi è più povero e meno istruito. Questo dato viene pacificamente accettato da ogni istituzione sanitaria e potrà trovare facili riscontri nell'esperienza di ciascuno.
Quando l'aria, l'acqua e i cibi sono avvelenati dalla gestione irresponsabile e incontrollata delle attività produttive, quando i nostri territori presentano un'incidenza di patologie neoplastiche superiore alla media nazionale a causa di qualcosa che per anni è stato riversato nelle nostre terre, con il tacito consenso delle classi dirigenti locali, il comparto degli operatori sanitari non può non prendere atto che la professione medica non è un'accozzaglia di rituali da stregoni sul corpo dei malati, ma un impegno politico e civile, una lotta per il miglioramento delle condizioni di esistenza, una lotta per il progresso dei diritti e delle libertà sociali.
Oggi, condizioni di lavoro sempre più difficili per ampie fasce di popolazione, costretta a mansioni precarie, degradanti, sottopagate e prive di tutele, sono il fattore primario di compromissione della salute dei cittadini; inoltre, una società che, attraverso ambizioni e aspettative vuote, sottopone gli individui a condizioni di stress psicologico sempre più esasperato ad ogni livello della vita sociale, dalla famiglia al tempo libero, dal lavoro alla strada, distrugge contemporaneamente ogni ambito di solidarietà e di ascolto tra le persone, riconsegnando ciascuno ad un'angoscia esistenziale della quale il concetto socialmente diffuso di "malattia" è spesso un alleato connivente.
Ricorre in misura maggiore ai trattamenti sanitari chi è più povero e meno istruito. E questo, lo intendiamo subito come una diretta conseguenza del dato precedente: cioè che si ammala di più chi è costretto a condizioni di vita e di lavoro più degradanti. Ma questo dato nasconde in sé un'altro elemento, meno facile da leggere e forse più inquietante.
Chi è più povero e meno istruito, rispetto a chi è ricco e colto, di fronte alle stesse diagnosi, si sottopone più spesso a trattamenti sanitari. Chi è più povero e meno istruito ha una percezione maggiore del bisogno di cure, ne fa una richiesta maggiore; invece, chi è colto e ricco, di fronte alle medesime diagnosi, ricorre meno spesso ai trattamenti ospedalieri, riesce in misura maggiore a convivere con la malattia, si affida a metodi di cura alternativi, ha la possibilità di scegliere trattamenti meno invasivi. Certo, si potrebbe obiettare, di fronte a questi dati, che una parte di coloro che sono più ricchi ed istruiti facciano ricorso a costose cliniche private, ma questo non inficia il dato generale emergente perché in questa ricerca si tiene conto di sanità privata, pubblica e convenzionata senza distinzione.
Il dato finale è questo: chi è più povero e meno istruito, è più propenso a richiedere prestazioni sanitarie di maggior peso ma ottiene un minore accesso ai servizi e cure di minore qualità ed efficacia. Infine, paradosso inquietante, a parità di diagnosi, è il personale medico che ricorre meno spesso alle cure ospedaliere e ai trattamenti sanitari di maggiore entità. Questi dati emergono delle ricerche condotte dall'università di Bologna a proposito delle disuguaglianze socioeconomiche nell'efficacia dei trattamenti sanitari, pubblicate nel 2006. Secondo il rapporto finale della ricerca «gran parte della spesa del servizio sanitario nazionale è assorbita da prestazioni erogate ai gruppi sociali più deboli, ma l'apparente immagine di equità e solidarietà del sistema viene contraddetta da un eccesso di inappropriatezza ed inefficacia». «Le persone di livello socioeconomico inferiore hanno, a parità di bisogno reale e di gravità di malattia, minori probabilità di ricevere cure efficaci ed appropriate; evidenti svantaggi sociali nell'accesso alla prevenzione primaria, alla diagnosi precoce ed alle cure tempestive e appropriate; difficoltà nell'accesso quotidiano ai servizi, per insufficienti informazioni sulle prestazioni, scarsa conoscenza delle strutture erogatrici, delle liste di attesa, delle tariffe e dei percorsi».
Credo che ciascuno possa riconoscere nella propria esperienza i casi particolari di cui questa ricerca fornisce una chiave di lettura generale e generica. Ma se oggi vogliamo affrontare una riflessione generale sul nostro ruolo nella società, non possiamo non interrogarci sul modo in cui il sistema sanitario tratta la malattia. La reificazione della malattia, rappresentata come un'entità a sé stante, estranea all'organismo e al suo vissuto, produce un sistema medico interessato solo al corpo-macchina del malato, alienato dal suo contesto sociale ed esistenziale; un malato che finisce a delegare al sistema sanitario l'incomunicabile angoscia di un corpo che è già un oggetto autoptico-fiscale quando fa il suo ingresso nel primo studio medico; e che sarà smembrato e riconsegnato a tanti specialisti quante sono le parti in cui l'essere umano è sezionabile.
E in questa luce si deve leggere il dato precedente: chi è più povero e meno istruito, chi non ha linguaggio per dare voce al proprio dolore, chi è costretto all'angoscia e all'insicurezza dalla distruzione delle relazioni sociali, da un'etica utilitaristica e competitiva, dal vuoto di una vita ridotta a mera sopravvivenza, non può che cadere vittima del potere oscuro che noi impersoniamo. Chi, per affrontare la morte e il dolore, non ha che il nulla della totale rimozione o i risibili balbettii di una casta sacerdotale secondo la quale la sacralità della vita è espressa da quella appendice della macchina che è stato il misero corpo di Eluana Englaro, cade vittima del nostro potere oscuro. Siamo gli unici, noi professionisti della medicina, a gestire la morte nella moderna società occidentale; a noi oggi tocca quel tenebroso potere che era stato dei dèmoni, degli stregoni e dei preti. E' un potere quasi illimitato, perché fondato sulle più indicibili angosce, sulle più profonde paure. Il passo che si fa dal non vedere questa verità ad approfittarne per il proprio turpe tornaconto è brevissimo; quasi nullo.
Ma c'è un'ultima, altrettanto grave circostanza, che oggi ci impone l'urgenza di interrogarci sul senso della medicina. Oggi noi ci troviamo ad operare in un contesto urbano in cui lo sfilacciamento e la distruzione delle relazioni sociali lascia sulle strade una quantità sempre maggiore di corpi esclusi e marginali, sfruttati dal sistema economico ma rifiutati dall'inclusione nei diritti di cittadinanza. Operando sulle emergenze sanitarie, noi ci troviamo ad affrontare i prodotti di una società in cui nessuno sa più prendersi cura dell'altro; in cui il disagio psichico è lasciato a languire nella totale indifferenza, quando non stigmatizzato; in cui masse di sfruttati, stranieri, marginali e devianti sono criminalizzati ed a volte esposti alla violenza dei semplici balordi e delle istituzioni come moderni capri espiatori, moderni pharmakoi: gli innocenti caricati di colpe e ritualmente sacrificati dalla collettività per sfogare la violenza accumulata nelle normali relazioni sociali.
Se per anni la sanità pubblica ha cercato di affrontare le situazioni di disagio e curarle, oggi si fa una campagna denigratoria contro i dipendenti pubblici per creare nuovo consenso attorno ai tagli e alle privatizzazioni. Ma abbiamo solo un modo per inceppare il funzionamento di questa macchina fatale: riconsiderare completamente la professione e la medicina, capire che il ruolo è prettamente politico all'interno della società.
Il grande sociologo Ivan Illich, sul finire degli anni '60, nel pieno sviluppo del sistema del welfare, disse che «la ricerca della salute è divenuto il fattore patogeno predominante». Il modo per smentire questa terribile profezia, invertire la rotta, è indicato nella nostra costituzione. La medicina, la pratica di cura operata da professionisti dotati di sensibilità e competenza nelle strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale, in virtù del dettato costituzionale che «garantisce cure gratuite agli indigenti», è in primo luogo lotta per il diritto alla salute, sostanza prima di quel proposito per cui rimuovere gli ostacoli di ordine «economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini» è il compito della collettività, il compito sancito dai martiri della Resistenza.
Quando l'aria, l'acqua e i cibi sono avvelenati dalla gestione irresponsabile e incontrollata delle attività produttive, quando i nostri territori presentano un'incidenza di patologie neoplastiche superiore alla media nazionale a causa di qualcosa che per anni è stato riversato nelle nostre terre, con il tacito consenso delle classi dirigenti locali, il comparto degli operatori sanitari non può non prendere atto che la professione medica non è un'accozzaglia di rituali da stregoni sul corpo dei malati, ma un impegno politico e civile, una lotta per il miglioramento delle condizioni di esistenza, una lotta per il progresso dei diritti e delle libertà sociali.
Oggi, condizioni di lavoro sempre più difficili per ampie fasce di popolazione, costretta a mansioni precarie, degradanti, sottopagate e prive di tutele, sono il fattore primario di compromissione della salute dei cittadini; inoltre, una società che, attraverso ambizioni e aspettative vuote, sottopone gli individui a condizioni di stress psicologico sempre più esasperato ad ogni livello della vita sociale, dalla famiglia al tempo libero, dal lavoro alla strada, distrugge contemporaneamente ogni ambito di solidarietà e di ascolto tra le persone, riconsegnando ciascuno ad un'angoscia esistenziale della quale il concetto socialmente diffuso di "malattia" è spesso un alleato connivente.
Ricorre in misura maggiore ai trattamenti sanitari chi è più povero e meno istruito. E questo, lo intendiamo subito come una diretta conseguenza del dato precedente: cioè che si ammala di più chi è costretto a condizioni di vita e di lavoro più degradanti. Ma questo dato nasconde in sé un'altro elemento, meno facile da leggere e forse più inquietante.
Chi è più povero e meno istruito, rispetto a chi è ricco e colto, di fronte alle stesse diagnosi, si sottopone più spesso a trattamenti sanitari. Chi è più povero e meno istruito ha una percezione maggiore del bisogno di cure, ne fa una richiesta maggiore; invece, chi è colto e ricco, di fronte alle medesime diagnosi, ricorre meno spesso ai trattamenti ospedalieri, riesce in misura maggiore a convivere con la malattia, si affida a metodi di cura alternativi, ha la possibilità di scegliere trattamenti meno invasivi. Certo, si potrebbe obiettare, di fronte a questi dati, che una parte di coloro che sono più ricchi ed istruiti facciano ricorso a costose cliniche private, ma questo non inficia il dato generale emergente perché in questa ricerca si tiene conto di sanità privata, pubblica e convenzionata senza distinzione.
Il dato finale è questo: chi è più povero e meno istruito, è più propenso a richiedere prestazioni sanitarie di maggior peso ma ottiene un minore accesso ai servizi e cure di minore qualità ed efficacia. Infine, paradosso inquietante, a parità di diagnosi, è il personale medico che ricorre meno spesso alle cure ospedaliere e ai trattamenti sanitari di maggiore entità. Questi dati emergono delle ricerche condotte dall'università di Bologna a proposito delle disuguaglianze socioeconomiche nell'efficacia dei trattamenti sanitari, pubblicate nel 2006. Secondo il rapporto finale della ricerca «gran parte della spesa del servizio sanitario nazionale è assorbita da prestazioni erogate ai gruppi sociali più deboli, ma l'apparente immagine di equità e solidarietà del sistema viene contraddetta da un eccesso di inappropriatezza ed inefficacia». «Le persone di livello socioeconomico inferiore hanno, a parità di bisogno reale e di gravità di malattia, minori probabilità di ricevere cure efficaci ed appropriate; evidenti svantaggi sociali nell'accesso alla prevenzione primaria, alla diagnosi precoce ed alle cure tempestive e appropriate; difficoltà nell'accesso quotidiano ai servizi, per insufficienti informazioni sulle prestazioni, scarsa conoscenza delle strutture erogatrici, delle liste di attesa, delle tariffe e dei percorsi».
Credo che ciascuno possa riconoscere nella propria esperienza i casi particolari di cui questa ricerca fornisce una chiave di lettura generale e generica. Ma se oggi vogliamo affrontare una riflessione generale sul nostro ruolo nella società, non possiamo non interrogarci sul modo in cui il sistema sanitario tratta la malattia. La reificazione della malattia, rappresentata come un'entità a sé stante, estranea all'organismo e al suo vissuto, produce un sistema medico interessato solo al corpo-macchina del malato, alienato dal suo contesto sociale ed esistenziale; un malato che finisce a delegare al sistema sanitario l'incomunicabile angoscia di un corpo che è già un oggetto autoptico-fiscale quando fa il suo ingresso nel primo studio medico; e che sarà smembrato e riconsegnato a tanti specialisti quante sono le parti in cui l'essere umano è sezionabile.
E in questa luce si deve leggere il dato precedente: chi è più povero e meno istruito, chi non ha linguaggio per dare voce al proprio dolore, chi è costretto all'angoscia e all'insicurezza dalla distruzione delle relazioni sociali, da un'etica utilitaristica e competitiva, dal vuoto di una vita ridotta a mera sopravvivenza, non può che cadere vittima del potere oscuro che noi impersoniamo. Chi, per affrontare la morte e il dolore, non ha che il nulla della totale rimozione o i risibili balbettii di una casta sacerdotale secondo la quale la sacralità della vita è espressa da quella appendice della macchina che è stato il misero corpo di Eluana Englaro, cade vittima del nostro potere oscuro. Siamo gli unici, noi professionisti della medicina, a gestire la morte nella moderna società occidentale; a noi oggi tocca quel tenebroso potere che era stato dei dèmoni, degli stregoni e dei preti. E' un potere quasi illimitato, perché fondato sulle più indicibili angosce, sulle più profonde paure. Il passo che si fa dal non vedere questa verità ad approfittarne per il proprio turpe tornaconto è brevissimo; quasi nullo.
Ma c'è un'ultima, altrettanto grave circostanza, che oggi ci impone l'urgenza di interrogarci sul senso della medicina. Oggi noi ci troviamo ad operare in un contesto urbano in cui lo sfilacciamento e la distruzione delle relazioni sociali lascia sulle strade una quantità sempre maggiore di corpi esclusi e marginali, sfruttati dal sistema economico ma rifiutati dall'inclusione nei diritti di cittadinanza. Operando sulle emergenze sanitarie, noi ci troviamo ad affrontare i prodotti di una società in cui nessuno sa più prendersi cura dell'altro; in cui il disagio psichico è lasciato a languire nella totale indifferenza, quando non stigmatizzato; in cui masse di sfruttati, stranieri, marginali e devianti sono criminalizzati ed a volte esposti alla violenza dei semplici balordi e delle istituzioni come moderni capri espiatori, moderni pharmakoi: gli innocenti caricati di colpe e ritualmente sacrificati dalla collettività per sfogare la violenza accumulata nelle normali relazioni sociali.
Se per anni la sanità pubblica ha cercato di affrontare le situazioni di disagio e curarle, oggi si fa una campagna denigratoria contro i dipendenti pubblici per creare nuovo consenso attorno ai tagli e alle privatizzazioni. Ma abbiamo solo un modo per inceppare il funzionamento di questa macchina fatale: riconsiderare completamente la professione e la medicina, capire che il ruolo è prettamente politico all'interno della società.
Il grande sociologo Ivan Illich, sul finire degli anni '60, nel pieno sviluppo del sistema del welfare, disse che «la ricerca della salute è divenuto il fattore patogeno predominante». Il modo per smentire questa terribile profezia, invertire la rotta, è indicato nella nostra costituzione. La medicina, la pratica di cura operata da professionisti dotati di sensibilità e competenza nelle strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale, in virtù del dettato costituzionale che «garantisce cure gratuite agli indigenti», è in primo luogo lotta per il diritto alla salute, sostanza prima di quel proposito per cui rimuovere gli ostacoli di ordine «economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini» è il compito della collettività, il compito sancito dai martiri della Resistenza.