Apatheia

La terra tremò

Novanta secondi infiniti come ore, come giorni

Novanta. Novanta secondi infiniti come ore, come giorni. Erano le 19:34 del 23 novembre 1980, era domenica, mio fratello ed io, 11 e 12 anni, sul pavimento, giocavamo. Mio padre studiava degli appunti di lavoro, la televisione era accesa ma senza voce, a quell'ora trasmettevano le sintesi delle partite di calcio. Alle 19:34, improvvisamente per noi ma sicuramente non per la terra, il silenzio smise per diventare più silenzioso e rendere il più possibile assordante il rumore della terra che trema. Un rumore che ricordo perfettamente ma che non saprei come rendere, un boato che passa per il cuore come una scossa e poi lo abbandona, diventa più forte, sempre più forte come se qualcuno nervosamente vibrasse le gambe o le braccia su due piani vicini ma staccati e li facesse sbattere tra loro sempre più forte e sempre più velocemente.

Guardai prima mio fratello e lui guardò me, non sapevamo cosa fosse, sapevamo solo che c'era da aver paura e la paura diventò infinita quando corremmo da mio padre e lo guardammo, lui guardò noi ma non erano i soliti occhi, gli occhi di chi sa sempre cosa deve fare, non era la sua voce, la voce di chi sa dirci cosa sia. Oh quanto sarebbe stata più gradita la voce tuonante di un rimprovero. La paura divento terrore, mio padre parlò ma non si udì alcun suono, la voce sembrò scivolare direttamente sul pavimento vibrante. Lui, proprio lui, non sapeva cosa fare. Ci prese per mano ma restò fermo, immobile per diversi istanti. I mobili danzavano come dei dervisci rotanti, i lampadari parevano campane suonate a stormo, i bicchieri e i piatti della credenza tintinnavano e cadevano e negli angoli cominciavano a farsi crepe che ancora oggi ho nella mia testa. Mio padre aprì la porta e si fermò ancora. Dalle scale si udivano le urla echeggianti ed i tonfi di scale fatte almeno tre alla volta.

Mio padre decise che saremmo andati anche noi, aveva paura e la paura si leggeva chiaramente e la sua paura per noi era la fine. Infatti pensai che saremmo morti di lì a poco, pregai Dio di non farci morire e cominciai a correre con loro e poi con tutti i nostri vicini, noi eravamo al quinto ed ultimo piano. Eravamo una processione, stretti e disperati per quelle scale, chi superava, chi prendeva per mano, chi piangeva, chi aspettava. Un incubo che ovviamente ho ripercorso altre volte. Ricordo anche un episodio che dopo, molto tempo dopo a raccontarcelo, ci ha fatto parecchio ridere. Giunti verso il primo piano, proprio il nostro vicino stava salendo e recava sulle spalle un nuovo materasso. Evidentemente lui dalla strada non aveva percepito il terremoto e se ne saliva tranquillamente con il suo fardello. All'improvviso si vide inglobato dalla diaspora galoppante. Provate ad immaginare. Lui provò a chiedere cosa fosse accaduto, cosa ci sospingesse a cotal guisa ma senza aver degna risposta se non altre urla e cenni di disperazione. Ad un tratto, terrorizzato dall'ignoto che si dispera, si liberò dell'agognato giaciglio lasciandolo cadere per le scale, si voltò ed anche lui cominciò a correre e ad urlare con tutti noi pur non conoscendo il nostro terrore.

Che fortuna, ho potuto raccontarvelo.
Ciao Emilia Romagna. A presto.
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La rubrica di Rino Negrogno

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