Apatheia
Quando saremo morti
Cosa penseranno di noi i nostri figli?
lunedì 20 maggio 2013
11.24
Che uomini migliori saremmo se, per ogni parola che pronunciamo, per ogni promessa che facciamo, per ogni progetto che realizziamo e per ogni cosa che neghiamo o che distruggiamo, pensassimo a cosa potrebbero dire un giorno di noi i nostri figli, cosa potrebbero pensare di noi quando non ci saremo più, che ricordo potrebbero avere di noi quando saremo morti. Che uomini migliori saremmo se tutto questo ci importasse. Ma cosa penseranno di noi i nostri figli? Come chiameranno la nostra generazione?
Già si è sempre portati, per natura, a scaricare le colpe su chi ci ha proceduti, come facciamo noi peraltro che accusiamo i nostri nonni ed i nostri genitori di averci lasciato in eredità un mondo ormai allo sbaraglio. Ma cosa facciamo noi per questo mondo? Diranno di noi che abbiamo passato decine e decine di anni nel tentativo di liberarci di un uomo senza riuscirci. Diranno che eravamo senza lavoro ed eravamo giorno dopo giorno sempre più poveri ma noi non ce ne preoccupavamo, non creavamo nessuna opportunità perché questa condizione cambiasse. Diranno che avevamo grande fantasia ed una certa vena poetica nell'inventarci nomi di partiti politici e ne avevamo pochissima invece nel cambiare gli uomini che li componevano o nel proporre soluzioni vantaggiose per il popolo. Diranno che, nonostante tutta questa miseria, eravamo grandi giocatori di lotterie, grandi seguaci e tifosi di calciatori milionari e conduttrici commoventi di storie strappalacrime. Diranno che eravamo pronti a sacrificarci per salvare le banche in difficoltà, eravamo freddi calcolatori, grandi esperti di economia e per questo sapevamo che era necessario chiudere ospedali, ridurre pensioni, stipendi (tranne quelli dei politici e dei dirigenti) e che era più importante comprare cacciabombardieri e mandare soldati a fare la guerra in giro per il mondo. Diranno che eravamo egli incoscienti che non amavano i loro figli, che eravamo degli egoisti e ci odieranno, ci malediranno, ci abbandoneranno, più di quanto non lo saremo per forza, in cimiteri desolati.
Cosa diranno di noi che guardavamo indifferenti la disperazione di uomini che si suicidavano? E si uccidevano non perché erano stati sconfitti e non volevano essere presi ed imprigionati, non perché avevano commesso gravi errori e non volevano essere giudicati, non perche avevano pene ed affanni d'amore, ma perché non avevano un lavoro e non potevano far mangiare i loro figli. Cosa diranno di noi che lasciavamo soli nella loro disperazione questi padri di famiglia?
La disperazione di un uomo che non ha un lavoro, che non può mantenere la propria famiglia, non può far mangiare i propri figli, è certamente la disperazione più grande che si possa provare. È una sciagura. Il lavoro rende liberi, ci permette di non fare compromessi e, soprattutto, ci permette di costruire ed essere padroni del nostro futuro. Se un uomo decide di uccidersi perché non ha un lavoro vuol dire che non vede nessuna via di uscita, vuol dire che non ha più nessuna speranza e se questo accade, ci sono delle responsabilità collettive soprattutto se quest'uomo resta solo, abbandonato nella sua disperazione.
Uccidersi sapendo di lasciare dei figli vuol dire che ci si sente inadeguati, incapaci, vuol dire che si ha la convinzione di aver fallito il proprio compito di padre e quindi, con il suicidio, ci si condanna a morte, ci si punisce con la speranza che qualcun altro, le istituzioni, la chiesa, i parenti, possa prendersi cura di loro come non si è stato in grado di fare. Uccidersi è un errore da non fare mai.
Vorrei che tutti, politici, intellettuali, uomini di cultura, imprenditori, lavoratori, studenti, disoccupati, si incontrassero per discutere, vorrei si facesse un dibattito per analizzare il drammatico problema del lavoro che non c'è, vorrei che si cercassero delle soluzioni, che si ascoltassero le proposte di tutti. Dobbiamo almeno provarci, non possiamo dare importanza al problema lavoro solo durante le campagne elettorali per strappare un voto illudendo la gente disperata. Vorrei che non continuasse, di fronte a questi drammi, l'orribile silenzio di sempre. Non è un invito formale, è un invito reale.
Cosa diranno di noi i nostri figli se non ci proveremo? Come saranno?
Già si è sempre portati, per natura, a scaricare le colpe su chi ci ha proceduti, come facciamo noi peraltro che accusiamo i nostri nonni ed i nostri genitori di averci lasciato in eredità un mondo ormai allo sbaraglio. Ma cosa facciamo noi per questo mondo? Diranno di noi che abbiamo passato decine e decine di anni nel tentativo di liberarci di un uomo senza riuscirci. Diranno che eravamo senza lavoro ed eravamo giorno dopo giorno sempre più poveri ma noi non ce ne preoccupavamo, non creavamo nessuna opportunità perché questa condizione cambiasse. Diranno che avevamo grande fantasia ed una certa vena poetica nell'inventarci nomi di partiti politici e ne avevamo pochissima invece nel cambiare gli uomini che li componevano o nel proporre soluzioni vantaggiose per il popolo. Diranno che, nonostante tutta questa miseria, eravamo grandi giocatori di lotterie, grandi seguaci e tifosi di calciatori milionari e conduttrici commoventi di storie strappalacrime. Diranno che eravamo pronti a sacrificarci per salvare le banche in difficoltà, eravamo freddi calcolatori, grandi esperti di economia e per questo sapevamo che era necessario chiudere ospedali, ridurre pensioni, stipendi (tranne quelli dei politici e dei dirigenti) e che era più importante comprare cacciabombardieri e mandare soldati a fare la guerra in giro per il mondo. Diranno che eravamo egli incoscienti che non amavano i loro figli, che eravamo degli egoisti e ci odieranno, ci malediranno, ci abbandoneranno, più di quanto non lo saremo per forza, in cimiteri desolati.
Cosa diranno di noi che guardavamo indifferenti la disperazione di uomini che si suicidavano? E si uccidevano non perché erano stati sconfitti e non volevano essere presi ed imprigionati, non perché avevano commesso gravi errori e non volevano essere giudicati, non perche avevano pene ed affanni d'amore, ma perché non avevano un lavoro e non potevano far mangiare i loro figli. Cosa diranno di noi che lasciavamo soli nella loro disperazione questi padri di famiglia?
La disperazione di un uomo che non ha un lavoro, che non può mantenere la propria famiglia, non può far mangiare i propri figli, è certamente la disperazione più grande che si possa provare. È una sciagura. Il lavoro rende liberi, ci permette di non fare compromessi e, soprattutto, ci permette di costruire ed essere padroni del nostro futuro. Se un uomo decide di uccidersi perché non ha un lavoro vuol dire che non vede nessuna via di uscita, vuol dire che non ha più nessuna speranza e se questo accade, ci sono delle responsabilità collettive soprattutto se quest'uomo resta solo, abbandonato nella sua disperazione.
Uccidersi sapendo di lasciare dei figli vuol dire che ci si sente inadeguati, incapaci, vuol dire che si ha la convinzione di aver fallito il proprio compito di padre e quindi, con il suicidio, ci si condanna a morte, ci si punisce con la speranza che qualcun altro, le istituzioni, la chiesa, i parenti, possa prendersi cura di loro come non si è stato in grado di fare. Uccidersi è un errore da non fare mai.
Vorrei che tutti, politici, intellettuali, uomini di cultura, imprenditori, lavoratori, studenti, disoccupati, si incontrassero per discutere, vorrei si facesse un dibattito per analizzare il drammatico problema del lavoro che non c'è, vorrei che si cercassero delle soluzioni, che si ascoltassero le proposte di tutti. Dobbiamo almeno provarci, non possiamo dare importanza al problema lavoro solo durante le campagne elettorali per strappare un voto illudendo la gente disperata. Vorrei che non continuasse, di fronte a questi drammi, l'orribile silenzio di sempre. Non è un invito formale, è un invito reale.
Cosa diranno di noi i nostri figli se non ci proveremo? Come saranno?