Giorgio La Pira
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Giorgio La Pira, il ricordo a quarant'anni dalla morte

La lettera di Francesco Tomasicchio

La Pira nasce a Pozzallo il 9 gennaio 1904; si laurea in giurisprudenza a Firenze nel 1926 e nel 1933 è vincitore del concorso a cattedra in Diritto romano. Dopo la liberazione, nel 1946 viene eletto deputato alla Costituente e, successivamente, nel 1951 diviene, per la prima volta, sindaco di Firenze. Ricoprirà la carica sino al 1957, per poi essere rieletto nel 1958 alla Camera dei Deputati. Nel 1961 decide di concorre nuovamente per la carica di sindaco del comune fiorentino, venendo rieletto. La Pira non è un democristiano comune, anzi, volendo dar conto delle sue affermazioni, egli soleva ripetere: «L'unica tessera che possiedo è quella del battesimo». Ispirato dalla sua fervida fede religiosa, quella cattolica, La Pira è latore ed, al medesimo tempo, promotore di una politica che tende a rivolgere l'attenzione delle istituzioni ai poveri ed alla promozione della pace nel mondo.

Non a caso, egli è stato il politico dell'utopia, dell'impossibile molte volte divenuto possibile. Basti pensare all'impegno determinante profuso durante la crisi di Suez nel 1956, nel porsi come il più valoroso ed autorevole intermediario fra l'asse atlantico e quello arabo, pur tuttavia salvaguardando sempre gli interessi nazionali (basti ricordare i numerosissimi viaggi in Nord Africa, in Vietnam e negli Stati Uniti d'America; i più incontri, tenuti presso Palazzo Vecchio, di tutti i Sindaci delle capitali del mondo) oppure quello senza sosta dimostrato nell'assistenza sociale e nella tutela incondizionata mostrata nei confronti dei meno abbienti. La Pira è portatore di un'idea economica neo-keynesiana, improntata a favorire gli investimenti pubblici e ad una costante attenzione nei confronti del mondo proletario, ma anche, e di conseguenza, del mondo industriale. Egli non acuiva gli scontri di classe, bensì cercava di risolverli attraverso il "compromesso". Ecco la "fantasia al potere", allorquando nel 1953 La Pira decise di protestare, assieme agli operai, occupando la Pignone a causa della decisione presa dal suo presidente di chiusura della fabbrica e del licenziamento tout-court di tutti gli operai.

Significativo si rivelò l'asse indissolubile La Pira-Fanfani-Mattei, nato dopo un iniziale e veemente scontro fra La Pira e Fanfani, testimoniato dal carteggio «Caro Giorgio…Caro Amintore…» del settembre/novembre 1953; scontro che, tuttavia, si concluse con un lieto fine: la fabbrica fu salvata grazie all'investimento di Enrico Mattei, dall'intervento dello Stato promosso da Fanfani in veste di Ministro degli interni e da La Pira medesimo, che con la sua azione degna del più valido e coraggioso rivoluzionario, costrinse lo stato ad intervenire in prima persona.

L'idea di La Pira era quella di «partire dal basso», poiché, in quel frangente storico, il proletariato diveniva sempre più un instrumentum regni in mano della speculazione borghese e di pochi uomini d'affari che non si curavano dei diritti dei più deboli. Tuttavia, La Pira capì, prima di ogni altro, l'esigenza di non combattere a viso aperto "i più forti", ma di seguire ciò che la sua vocazione francescana più gli suggeriva: lo spirito della mediazione. Ecco la telefonata e la richiesta a Mattei di investire i propri capitali nella Nuova Pignone, ecco l'importanza delle conferenze di tutte le capitali del mondo, ecco il sincero riconoscimento politico nei confronti del panarabismo, delle sue tradizioni storiche e delle sue esigenze di libertà. E' sintomatico, a mio avviso, dedurre che questo valore incarnato perfettamente dal sindaco di Firenze, rientri nella sua concezione corporativa della società, un corporativismo nettamente e profondamente cristiano, che aveva ispirato la corrente democristiana cronache sociali di Giuseppe Dossetti, Amintore Fanfani, Aldo Moro ed, in particolar guisa, Giorgio La Pira e Costantino Mortati, latori della teoria della "coesione sociale".

Ad onor del vero, i maggior esponenti di Cronache Sociali, i cd. Dossettiani, occuparono un ruolo di prima linea durante i lavori per la redazione della carta costituzionale. In primo luogo, l'obiettivo di La Pira e dei suoi compagni di viaggio fu quello di incentrare la prima parte della Costituzione sull'uguaglianza, sulla parità dei diritti, sulla solidarietà, dunque sul compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale. In secondo luogo, essi si posero, per primi all'interno della Democrazia Cristiana, il problema dell'attuazione effettiva di siffatti principi sanciti in costituzione ed il problema, altresì, della loro conservazione per il prosieguo della democrazia e dell'integrità della Repubblica. A tal proposito, ciò che mi ha profondamente attratto è la sua personalissima battaglia in favore del principio della solidarietà umana. Siffatto principio è parte integrante della Dottrina Sociale della Chiesa, costante del pensiero e dell'azione lapiriana.

Tuttavia, risulterebbe uno sforzo vano cercare di delineare una costituzione ideale nella visione lapiriana; certo è che La Pira avversava le costituzioni imperniate e sull'assolutezza dello Stato (pertanto l'idea hegeliana) e sull'individuo (dunque, quella di Rousseau), costituzioni, queste ultime, artefici, secondo La Pira, di ogni totalitarismo. Per La Pira, la Costituzione italiana doveva riconoscere l'importanza delle comunità naturali e intendere la società come "moltitudine ordinata".

In conclusione, l'attività politica di Giorgio La Pira, condizionata dalla sua profonda fede cattolica, si è rivelata efficace per la salvaguardia della pace nel mondo. Pertanto, a mio avviso, la politica di La Pira non è da definirsi del tutto utopica: essa incarnava perfettamente quei valori di cui era latore il suo artefice: era si una politica a tratti spregiudicata ed al di fuori del razionalmente possibile, ma anche(e soprattutto) una politica profondamente aperta, che individuava nel dialogo la vera essenza della democrazia moderna, tipica della "weltaschaaung" cristiana di cui era promotore La Pira. La quale vedeva nel riscatto sociale dei più poveri la speranza di una sana crescita della partecipazione dei popoli alla vita dei rispettivi paesi e, conseguentemente, l'elevazione del tasso qualitativo di democrazia in quei medesimi paesi.

A corroborare siffatta visione del mondo, è quanto sostenuto da Massimo Brutti, Professore ordinario di Diritto Romano presso l'Università La Sapienza di Roma: «Il paradosso del pensiero lapiriano, per cui esso esercita viva attrazione anche nei confronti di un non credente, è che l'assolutezza della fede cristiana, professata senza la ricerca di giustificazioni raziocinanti, coincide con un'apertura sincera al colloquio con gli altri. E' profonda in lui la fiducia nella concordia, nell'incontro tra diverse visioni del mondo, grazie ad un'idea comune delle persone da aiutare. Idea concreta, storica, conflittuale, che nel suo pensiero ha una dimensione divina».

La profonda fiducia nella concordia, qui menzionata, ha permesso a La Pira di superare ( e, se necessario, talune volte di aggirare) gli ostacoli che si ponevano (o venivano artatamente frapposti) fra i popoli, a causa delle scelte e degli interessi dei belligeranti dell'epoca ovvero dei contesti storici esistenti. Questa fiducia, sebbene derivasse da una «assolutezza della fede cristiana, professata - come ha sostenuto Massimo Brutti - senza la ricerca di giustificazioni raziocinanti», non ha impedito a La Pira di continuare, senza soluzioni di continuità, ad intessere un dialogo con chiunque, senza anteporre al dialogo medesimo pregiudizio o giudizio alcuno. A mio avviso, è in questa profonda generosità e fiducia che vanno ricercate l'attualità e la magnificenza del pensiero e dell'azione lapiriana.

Francesco Tomasicchio
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