La NarraVita
Migranti, non basta indignarsi
Basterebbe trascorrere qualche ora a Villa San Giuseppe per capire che hanno ancora paura
domenica 6 settembre 2015
14.20
E' facile indignarsi dinnanzi alla foto di un bambino morto sulla spiaggia ma non è il primo a morire e se ognuno di noi non fa qualcosa non sarà nemmeno l'ultimo.
In questi giorni un'immagine si è diffusa sul web, nelle trasmissioni televisive nazionali e locali, senza sosta. La foto di un piccolo bambino restituito dal mare, nel viaggio della speranza che dalla sua terra di guerra, fame e povertà avrebbe dovuto portarlo alla salvezza. Il bambino è morto e tutti ci siamo commossi e siamo improvvisamente diventati paladini dell'immigrazione, colpevolizzando lo Stato e la politica per l'incapacità nel risolvere un problema.
Eppure non è la prima immagine di morte che ci è stata restituita. Quasi ogni giorno ci parlano i morti, stesi uno vicino all'altro, per terra, coperti. Parlano gli occhi inorriditi di chi si è salvato, parlano quei morti ancora in mare. Parlano i bambini che hanno perso la vita mentre in mare sono andati per provare ad averne una migliore, parlano i figli ancora non nati delle donne che incinte hanno deciso di intraprendere il viaggio e che sono morte. Parlano questi uomini ammassati gli uni sugli altri, come carne al macello su questa nave della speranza in viaggio da due giorni. Parla la paura. Parla il terrore ma parla anche l'ignoranza di chi afferma con il piglio della mediocrità di rispedire a casa questi "disgraziati" amanti della vita.
E allora ho deciso di trascorrere qualche ora con dei giovani migranti accolti presso Villa San Giuseppe a Bisceglie. Mi hanno accolto quasi tutti sorridendo, stupiti forse della presenza di una giovane donna tra loro. Alcuni spaventati, altri increduli, molti curiosi.
Sono giovani allegri, desiderosi di vita, che hanno improvvisato un campo di calcio per giocare assieme. Giovani che condividono i pasti e le camere, giovani e meno giovani intenti a capire come poter avere la libertà di vivere una vita tranquilla, molti sperano di poter ricongiungersi con le loro famiglie, altri di accumulare un piccolo tesoro per poter tornare a casa, più ricchi.
E mentre noi subdolamente ci indigniamo, pubblicando foto ad effetto sui social network, alla ricerca del like facile, questi giovani sono li, vicini a noi e soli, curati e tutelati dagli operatori di settore. Ma questo non basta.
Da quando sono andata via, con la promessa di tornare, una domanda si ripete nella mia testa: quanti altri morti dovrà restituirci il mare prima che tutti possano capire che in un mondo che mira e verte alla globalizzazione, all'integrazione e alla libera circolazione si deve essere pronti a consentire a chi vuole sfuggire alla morte certa e alla tortura di avere una nuova possibilità in una nuova terra, una nuova terra da raggiungere legalmente e non su improbabili gommoni nel rispetto di regole che devono garantire un unico diritto. Universale. Il diritto alla vita?
In questi giorni un'immagine si è diffusa sul web, nelle trasmissioni televisive nazionali e locali, senza sosta. La foto di un piccolo bambino restituito dal mare, nel viaggio della speranza che dalla sua terra di guerra, fame e povertà avrebbe dovuto portarlo alla salvezza. Il bambino è morto e tutti ci siamo commossi e siamo improvvisamente diventati paladini dell'immigrazione, colpevolizzando lo Stato e la politica per l'incapacità nel risolvere un problema.
Eppure non è la prima immagine di morte che ci è stata restituita. Quasi ogni giorno ci parlano i morti, stesi uno vicino all'altro, per terra, coperti. Parlano gli occhi inorriditi di chi si è salvato, parlano quei morti ancora in mare. Parlano i bambini che hanno perso la vita mentre in mare sono andati per provare ad averne una migliore, parlano i figli ancora non nati delle donne che incinte hanno deciso di intraprendere il viaggio e che sono morte. Parlano questi uomini ammassati gli uni sugli altri, come carne al macello su questa nave della speranza in viaggio da due giorni. Parla la paura. Parla il terrore ma parla anche l'ignoranza di chi afferma con il piglio della mediocrità di rispedire a casa questi "disgraziati" amanti della vita.
E allora ho deciso di trascorrere qualche ora con dei giovani migranti accolti presso Villa San Giuseppe a Bisceglie. Mi hanno accolto quasi tutti sorridendo, stupiti forse della presenza di una giovane donna tra loro. Alcuni spaventati, altri increduli, molti curiosi.
Sono giovani allegri, desiderosi di vita, che hanno improvvisato un campo di calcio per giocare assieme. Giovani che condividono i pasti e le camere, giovani e meno giovani intenti a capire come poter avere la libertà di vivere una vita tranquilla, molti sperano di poter ricongiungersi con le loro famiglie, altri di accumulare un piccolo tesoro per poter tornare a casa, più ricchi.
E mentre noi subdolamente ci indigniamo, pubblicando foto ad effetto sui social network, alla ricerca del like facile, questi giovani sono li, vicini a noi e soli, curati e tutelati dagli operatori di settore. Ma questo non basta.
Da quando sono andata via, con la promessa di tornare, una domanda si ripete nella mia testa: quanti altri morti dovrà restituirci il mare prima che tutti possano capire che in un mondo che mira e verte alla globalizzazione, all'integrazione e alla libera circolazione si deve essere pronti a consentire a chi vuole sfuggire alla morte certa e alla tortura di avere una nuova possibilità in una nuova terra, una nuova terra da raggiungere legalmente e non su improbabili gommoni nel rispetto di regole che devono garantire un unico diritto. Universale. Il diritto alla vita?