La NarraVita
Storia di un giornalista, “Non siate pigri, non vi fermate”
Oggi la NarraVita parla di un professionista del "mestiere": Giovanni Di Benedetto
sabato 21 marzo 2015
7.37
Ci siamo incontrati in un bar poco lontano dal centro io e Giovanni Di Benedetto. È molto strano fare domande ad un giornalista, ad uno che insomma è abituato a farle domande piuttosto che riceverle. É trascorsa così un'ora ad ascoltare le parole di un giornalista che scrive «per dare voce a chi non ha voce» e che nonostante possa definirsi realizzato mi dice, con lo sguardo serio e molto rispettoso, di non sentirsi affermato, come io stessa l'ho definito.
Una lunga gavetta cominciata nella redazione giornalistica di BariSera, con orari difficili per un ragazzo così giovane, in cui racconta di aver imparato il mestiere ricopiando per lungo tempo articoli scritti da altri, sotto la guida attenta di Giuseppe Simone, suo maestro. Ci tiente molto a raccontare di quando il direttore gli ha offerto il suo primo compito da giornalista, quello vero, quello sul campo ma a Barletta, una città che non conosceva affatto. Racconta della necessità di scrivere e raccontare storie vere, guardate con occhi puri senza sovrastrutture, quasi come gli occhi di uno che vede per la prima volta.
Giovanni Di Benedetto mi sembra un uomo felice, felice di aver scelto di trasformare la sua passione in lavoro e di esserci riuscito senza compromessi. Mi pare sia una di quelle persone da cui tutti possiamo imparare l'umiltà e la semplicità dell'apprezzare le cose vere, ma soprattutto mi sembra un giornalista fuori dal coro.
Oggi Giovanni Di Benedetto lavora con grande entusiamo per TeleNorba e Repubblica e "accusa" i giovani aspiranti giornalisti di essere pigri e di non guadagnarsi il sapore della notizia scoperta e raccontata in prima voce; non condivide le scelte di chi non conosce il limite dell'affrontare la notizia, rappresentata dall'emblematica immagine del lenzuolo che copre la vittima di un incidente o di un omicidio. Raccontare non può trasformarsi nella necessità di andare a vedere quello che c'è sotto quel lenzuolo, ledere il dolore e la dignità dell'uomo, sfruttare i sentimenti altrui, questo non è per Giovanni raccontare una notizia, non è essere giornalisti. Perché – dice – per essere un buon giornalista, bisogna anche essere un giornalista buono.
Rifiuta le notizie pubblicate sui social network e per questo combatte la concorrenza spietata di tutti gli addetti del settore che scrivono articoli rielaborando miseramente comunicati stampa e ci tiene a dire che «se vuoi essere un giornalista vero devi dormire con il cellulare acceso». Quando parla guarda in alto come se fosse ispirato da qualcosa; è arrivato un suo collaboratore e mi ha detto che ormai da anni vivono in simbiosi, che non esiste il giornalista e il tecnico, ma che sono una persona sola.
Mi commuove il rispetto che traspare dai suoi occhi, anche verso di me che mi sento piccola di fronte a lui e mi fanno un certo effetto gli occhi di Antonio Quinto, che era presente all'incontro, che lo ascolta in religioso silenzio.
Gli ho chiesto se è felice e mi ha risposto di si, nonostante le difficoltà di trascorrere la vita nelle notizie che si succedono in tempi e luoghi così disparati; è felice anche se è a cena con sua moglie e deve fuggire via perché qualcosa è successo e a quel qualcosa deve dare voce. Il tempo è finito, deve correre a Molfetta per lavoro, quel lavoro che ha scelto quando era giovanissimo e che lo rende sereno e orgoglioso.
Un uomo di grande onestà intellettuale, scrittore stimato e molto, molto lontano dall'immagine del giornalista medio che i nostri cari Tg ci propongono, un esempio per chi vuole fare questo lavoro e lo vuole fare bene. Ho anche fatto qualche scoperta, ha un debole per il suo piccolo nipote e una spietata passione per i carciofi della mamma. Ma questa è un'altra storia.
Una lunga gavetta cominciata nella redazione giornalistica di BariSera, con orari difficili per un ragazzo così giovane, in cui racconta di aver imparato il mestiere ricopiando per lungo tempo articoli scritti da altri, sotto la guida attenta di Giuseppe Simone, suo maestro. Ci tiente molto a raccontare di quando il direttore gli ha offerto il suo primo compito da giornalista, quello vero, quello sul campo ma a Barletta, una città che non conosceva affatto. Racconta della necessità di scrivere e raccontare storie vere, guardate con occhi puri senza sovrastrutture, quasi come gli occhi di uno che vede per la prima volta.
Giovanni Di Benedetto mi sembra un uomo felice, felice di aver scelto di trasformare la sua passione in lavoro e di esserci riuscito senza compromessi. Mi pare sia una di quelle persone da cui tutti possiamo imparare l'umiltà e la semplicità dell'apprezzare le cose vere, ma soprattutto mi sembra un giornalista fuori dal coro.
Oggi Giovanni Di Benedetto lavora con grande entusiamo per TeleNorba e Repubblica e "accusa" i giovani aspiranti giornalisti di essere pigri e di non guadagnarsi il sapore della notizia scoperta e raccontata in prima voce; non condivide le scelte di chi non conosce il limite dell'affrontare la notizia, rappresentata dall'emblematica immagine del lenzuolo che copre la vittima di un incidente o di un omicidio. Raccontare non può trasformarsi nella necessità di andare a vedere quello che c'è sotto quel lenzuolo, ledere il dolore e la dignità dell'uomo, sfruttare i sentimenti altrui, questo non è per Giovanni raccontare una notizia, non è essere giornalisti. Perché – dice – per essere un buon giornalista, bisogna anche essere un giornalista buono.
Rifiuta le notizie pubblicate sui social network e per questo combatte la concorrenza spietata di tutti gli addetti del settore che scrivono articoli rielaborando miseramente comunicati stampa e ci tiene a dire che «se vuoi essere un giornalista vero devi dormire con il cellulare acceso». Quando parla guarda in alto come se fosse ispirato da qualcosa; è arrivato un suo collaboratore e mi ha detto che ormai da anni vivono in simbiosi, che non esiste il giornalista e il tecnico, ma che sono una persona sola.
Mi commuove il rispetto che traspare dai suoi occhi, anche verso di me che mi sento piccola di fronte a lui e mi fanno un certo effetto gli occhi di Antonio Quinto, che era presente all'incontro, che lo ascolta in religioso silenzio.
Gli ho chiesto se è felice e mi ha risposto di si, nonostante le difficoltà di trascorrere la vita nelle notizie che si succedono in tempi e luoghi così disparati; è felice anche se è a cena con sua moglie e deve fuggire via perché qualcosa è successo e a quel qualcosa deve dare voce. Il tempo è finito, deve correre a Molfetta per lavoro, quel lavoro che ha scelto quando era giovanissimo e che lo rende sereno e orgoglioso.
Un uomo di grande onestà intellettuale, scrittore stimato e molto, molto lontano dall'immagine del giornalista medio che i nostri cari Tg ci propongono, un esempio per chi vuole fare questo lavoro e lo vuole fare bene. Ho anche fatto qualche scoperta, ha un debole per il suo piccolo nipote e una spietata passione per i carciofi della mamma. Ma questa è un'altra storia.