Una vita fa
Ore 8.30: Alfredo Albanese viene ucciso dalle Br
Trentuno anni fa a Mestre
giovedì 12 maggio 2011
Alfredo Albanese muore a trentatré anni, trucidato ferocemente da una pioggia di proiettili per mano delle Brigate Rosse. Succedeva trentuno anni fa. L'orologio segnava le 8.30 a Mestre, il sole brillava, l'aria era fresca. A quell'ora la strada era affollata: bambini, massaie, impiegati e pensionati. Era uscito di casa da pochi minuti per recarsi, come ogni mattina, nel suo ufficio. Il commissario di origini tranesi era il responsabile della sezione antiterrorismo veneziana della polizia di Stato. Era impegnato nelle indagini sull'omicidio di Sergio Gori, vicepresidente della Montedison, un'inchiesta che stava crescendo, andando ad implicare il coinvolgimento di gruppi della sinistra militante, principalmente legati alle Br e ad Autonomia operaia. Stava per scoprire i capi della colonna veneta delle Br, l'unica che era riuscita a conservare la propria impenetrabilità. C'era quasi riuscito e per questo il giovane funzionario costituiva un pericolo: doveva essere messo a tacere, in ogni modo e con ogni mezzo. E così fu.
Alfredo Albanese muore in seguito ad un agguato rivendicato dalle Brigate Rosse dapprima con una telefonata e in seguito con un volantino abbandonato nel cestino dei rifiuti. «Non era un abitudinario», raccontano i suoi colleghi di lavoro. «Non usciva mai di casa ad un'ora fissa. I killer devono averlo aspettato. Forse erano già lì da alcune ore». L'attentato è avvenuto la mattina del 12 maggio 1980, all'incrocio tra via Rielta e via Comelico dove la sua Fiat 131 Mirafiori venne bloccata da una Fiat 850. Il commissario tranese fu crivellato atrocemente da una quindicina di colpi sparati in rapida successione. L'autoambulanza a sirene spiegate partì per l'ospedale Umberto I, ma oramai non c'era più nulla da fare: Alfredo Albanese spirò poco dopo il suo arrivo in pronto soccorso, lasciando per sempre la giovane moglie Teresa Friggione che portava in grembo il loro figlio. Alfredo Albanese non aveva mai informato Teresa delle minacce che gli erano giunte in commissariato. L'ha tenuta all'oscuro di tutto per non farla preoccupare. «Aveva avvertito le mogli dei suoi colleghi - ci racconta la donna a distanza di 31 anni - perché non mi dicessero nulla».
«Spero mi diano il tempo di conoscere mio figlio» disse Albanese al maresciallo che era con lui in stanza dopo un'intimidatoria telefonata. Per la rabbia spezzò in due la matita, ma del suo più grosso desiderio non rimase che una vuota speranza. La vedova Albanese racconta: «Non dimenticherò mai il giorno in cui ho avuto la conferma di essere incinta. La gioia era immensa. Non ci stava più nella pelle. Alfredo era felicissimo. In questa casa non si fuma più! Ricordo mentre lo diceva come se fosse accaduto ieri».
A distanza di 31 anni, Albanese è diventato un simbolo per chi alimenta la fiamma dell'antiterrorismo. «I brigatisti sapevano che lui sapeva» ricorda uno degli investigatori che collaborava con quel giovane e dinamico commissario tranese. «Pochi avevano capito che Albanese era sulla strada giusta, fra questi c'erano anche i militanti delle Br. Albanese aveva già ricevuto un avvertimento mafioso: non continuare, lascia perdere. Lui ha continuato, le Br l'hanno ucciso».
Il barbaro assassinio fece rabbrividire la città tutta. La notizia agghiacciante provocò un profondo smarrimento nei cittadini che subito si riversarono per le strade, sul luogo dell'attentato, lasciando mazzi di garofani rossi e fiori di campo lì dove Albanese era stato ucciso, lì dove solo il suo sangue era vivo al sole, dando vita ad una manifestazione tesa e silenziosa. Dolore, rabbia, sgomento divennero immediatamente i protagonisti della mobilitazione di masse di lavoratori, del movimento sindacale, delle forze democratiche pronti a non tirarsi indietro, pronti ad urlare il loro no al terrorismo. Il cordoglio fu corale e compatto da Venezia a Trani, la sua terra natale, la città della sua giovinezza, del liceo e dei giovani amici, la città alla quale tornava col pensiero e con i ricordi con toni nostalgici e dove vi ritornò soltanto nel suo corpo martoriato. La folla - come attestano le pagine del Tranesiere del 1980 - si riunì in un attonito silenzio e in sordo applauso dinanzi al feretro all'uscita della chiesa di San Giuseppe nella quale Teresa e Alfredo si erano sposati cinque anni prima.
Sono passati trentuno anni da quella mattina e da allora a Mestre il ricordo di Alfredo, della sua carica umana, di un uomo impegnato al puro servizio delle Istituzioni non si è mai spento. «Ogni anno – dice Teresa - torno a Mestre, nei posti dell'agguato, dove in onore di mio marito si celebrano, con la tenacia di chi non vuole dimenticare, una serie di manifestazioni». Il 28 maggio Teresa e suo figlio Alfredo saranno presenti ad una cerimonia voluta dall'amministrazione comunale presso il cimitero di Trani tesa al ricordo di un uomo-esempio dell'impegno civile. Non succedeva dal suo venticinquesimo anniversario. «Mi è rimasta la voglia di testimoniare. Partecipo attivamente alle conferenze organizzate dalle scuole perché i ragazzi hanno voglia di sapere. Non dimenticherò mai le parole di una giovane ragazza intervistata dal Gazzettino di Venezia al termine di uno dei convegni a cui ho preso parte. Disse: Pensavo che il terrorismo fossero solo le torri gemelle, ingenuamente. C'è dell'altro che non sapevo e che occorre ricordare».
Alfredo Albanese muore in seguito ad un agguato rivendicato dalle Brigate Rosse dapprima con una telefonata e in seguito con un volantino abbandonato nel cestino dei rifiuti. «Non era un abitudinario», raccontano i suoi colleghi di lavoro. «Non usciva mai di casa ad un'ora fissa. I killer devono averlo aspettato. Forse erano già lì da alcune ore». L'attentato è avvenuto la mattina del 12 maggio 1980, all'incrocio tra via Rielta e via Comelico dove la sua Fiat 131 Mirafiori venne bloccata da una Fiat 850. Il commissario tranese fu crivellato atrocemente da una quindicina di colpi sparati in rapida successione. L'autoambulanza a sirene spiegate partì per l'ospedale Umberto I, ma oramai non c'era più nulla da fare: Alfredo Albanese spirò poco dopo il suo arrivo in pronto soccorso, lasciando per sempre la giovane moglie Teresa Friggione che portava in grembo il loro figlio. Alfredo Albanese non aveva mai informato Teresa delle minacce che gli erano giunte in commissariato. L'ha tenuta all'oscuro di tutto per non farla preoccupare. «Aveva avvertito le mogli dei suoi colleghi - ci racconta la donna a distanza di 31 anni - perché non mi dicessero nulla».
«Spero mi diano il tempo di conoscere mio figlio» disse Albanese al maresciallo che era con lui in stanza dopo un'intimidatoria telefonata. Per la rabbia spezzò in due la matita, ma del suo più grosso desiderio non rimase che una vuota speranza. La vedova Albanese racconta: «Non dimenticherò mai il giorno in cui ho avuto la conferma di essere incinta. La gioia era immensa. Non ci stava più nella pelle. Alfredo era felicissimo. In questa casa non si fuma più! Ricordo mentre lo diceva come se fosse accaduto ieri».
A distanza di 31 anni, Albanese è diventato un simbolo per chi alimenta la fiamma dell'antiterrorismo. «I brigatisti sapevano che lui sapeva» ricorda uno degli investigatori che collaborava con quel giovane e dinamico commissario tranese. «Pochi avevano capito che Albanese era sulla strada giusta, fra questi c'erano anche i militanti delle Br. Albanese aveva già ricevuto un avvertimento mafioso: non continuare, lascia perdere. Lui ha continuato, le Br l'hanno ucciso».
Il barbaro assassinio fece rabbrividire la città tutta. La notizia agghiacciante provocò un profondo smarrimento nei cittadini che subito si riversarono per le strade, sul luogo dell'attentato, lasciando mazzi di garofani rossi e fiori di campo lì dove Albanese era stato ucciso, lì dove solo il suo sangue era vivo al sole, dando vita ad una manifestazione tesa e silenziosa. Dolore, rabbia, sgomento divennero immediatamente i protagonisti della mobilitazione di masse di lavoratori, del movimento sindacale, delle forze democratiche pronti a non tirarsi indietro, pronti ad urlare il loro no al terrorismo. Il cordoglio fu corale e compatto da Venezia a Trani, la sua terra natale, la città della sua giovinezza, del liceo e dei giovani amici, la città alla quale tornava col pensiero e con i ricordi con toni nostalgici e dove vi ritornò soltanto nel suo corpo martoriato. La folla - come attestano le pagine del Tranesiere del 1980 - si riunì in un attonito silenzio e in sordo applauso dinanzi al feretro all'uscita della chiesa di San Giuseppe nella quale Teresa e Alfredo si erano sposati cinque anni prima.
Sono passati trentuno anni da quella mattina e da allora a Mestre il ricordo di Alfredo, della sua carica umana, di un uomo impegnato al puro servizio delle Istituzioni non si è mai spento. «Ogni anno – dice Teresa - torno a Mestre, nei posti dell'agguato, dove in onore di mio marito si celebrano, con la tenacia di chi non vuole dimenticare, una serie di manifestazioni». Il 28 maggio Teresa e suo figlio Alfredo saranno presenti ad una cerimonia voluta dall'amministrazione comunale presso il cimitero di Trani tesa al ricordo di un uomo-esempio dell'impegno civile. Non succedeva dal suo venticinquesimo anniversario. «Mi è rimasta la voglia di testimoniare. Partecipo attivamente alle conferenze organizzate dalle scuole perché i ragazzi hanno voglia di sapere. Non dimenticherò mai le parole di una giovane ragazza intervistata dal Gazzettino di Venezia al termine di uno dei convegni a cui ho preso parte. Disse: Pensavo che il terrorismo fossero solo le torri gemelle, ingenuamente. C'è dell'altro che non sapevo e che occorre ricordare».